gabbiano

La recensione de La regola dell’eccesso di Ilaria Biondi è straordinario per la qualità poetica che esprime e per la comprensione profonda del lavoro che c’è dietro la stesura di questo libro che ha comportato un percorso faticoso, coinvolgente ed emozionate tanto per il narrratore quanto per il ghost writer. Tra l’altro Ilaria Biondi ha scritto: “Quando un libro ti si tuffa dentro e ti scuote come tormenta di neve e fuoco, senti la necessità di “gridare” le emozioni che ti attraversano l’anima. Ci ho provato con questa recensione al romanzo autobiografico “La regola dell’eccesso” di Renato Tormenta e Susanna De Ciechi. Ringrazio Renato e Susanna per queste pagine coraggiose, intense, tormentate, dominate dal buio del dolore e della prigionia della dipendenza. Ma una piccola grande luce può forse bucare quell’oscurità”.

Qui il link alla recensione pubblicata sul Blog Cultura al femminile e qui il Pdf culturaalfemminile-wordpress-com 25 3 16

Qui il testo integrale della recensione di Ilaria Biondi.
Renato Tormenta & Susanna De Ciechi, La regola dell’eccesso, 2015
“Voglio volare in alto, sopra il mare, come un gabbiano”
Nelle mie vene si adagia la mia mala sorte, ala nera che consuma sangue e voce.
La Tormenta infuria fra i miei capelli e disperde i miei passi. Corrente senza posa, a svellere le radici dalla terraferma, a farmi precipitare nella marea degli abissi, nel sudicio segreto delle macerie di una vita che cerca, invano, le tessere del proprio segreto.
Tormento quasi eterno, che erode le mie membra affamate di vita e forse di morte.
Bastano le geometrie esatte della scienza a spiegare il lutto dannato di un’anima che porta sul capo la corona di spine della perdizione?
La mia storia irredenta accumula le rotte millenarie di fatiche e dolori.
La nascita in una famiglia povera, nel ventre amaro di una città perduta, allattata dalle grida notturne del degrado e della delinquenza, corrosa dal germe infido della maledizione.
Il distacco bestemmiato dalla mia Napoli, l’approdo nelle nebbie ostili di un mondo che mi ha sempre guardato come incastro imperfetto e non voluto.
Io non cerco alibi, né sono l’ideale candidato delle vostre supposizioni che si nutrono di statistiche e speculazioni causa-effetto. Guardate i miei fratelli. Non sono forse anche loro usciti dallo stesso guscio secco e appuntito? Eppure nelle loro ossa e nel loro sudore non trema l’odore della caduta. La loro mappa non ha smarrito la traccia della giusta via.
Mi strappo alla mia città, benedetta maledetta, così selvaggiamente bella da rubarti le viscere e così sordida di bruttura da renderti dimentico della luce, per vagare con cuore nomade fuori dalla caverna, lontano dal grembo accecato che mi ha partorito senza battesimo, brancolando in preda a un viaggio che è perenne fuga.
Da tutto, da tutti e soprattutto da me stesso. Dal Vuoto che mi morde il petto e mi strappa le ossa, vuoto senza nome che conosce il mio nome.
Inseguo orme inesistenti, alla ricerca di uno spazio che non divori la mia pelle e mi restituisca a me stesso. Brest. Baltimora. Brasile. Milano. Cina. Genova. Washington. Londra. Ogni nuovo orizzonte pare una piccola Terra Promessa, per un attimo. Ma sono di nuovo a due passi dall’inferno. La TERRA non mi basta …
Questo FUOCO che mi succhia e mi percuote. Tempesta di vento che non conosce bonaccia. Il corpo corteggia famelico alcove di labbra e gambe, sull’onda di una perpetua follia. Un corpo, ad esplorare mille corpi. Volti di donne dal facile inganno dissolti rapidi nell’oblio. Attendo forse l’amore? Non lo cerco né forse lo voglio, perché lui non vuole me.
L’ho sfiorato. Ma la mia selvatichezza ha precipitato tutto nell’impossibile rimpianto. Mi sono aggrappato alle rive sterili della sensualità carnosa. Stessi vizi e voglie antiche.
Mi logora un palpito ambiguo che teme la gabbia. Non costruisco niente e distruggo ogni cosa. Mi avvinghio come sanguisuga al mio stesso sangue, fino a rimanerne svuotato. Beato chi si muove entro le pareti levigate di un’esistenza normale. Pareti che  saprei solo graffiare fino a scuoiarmi unghie e ossa.
Han guardato i miei occhi al mare, al di là del chiuso orizzonte. Smania di avventura, desiderio di misteriosa meraviglia. Nelle ignote profondità mi sono illuso di placare il tremore inquieto che m’imprigiona, ma l’ACQUA limacciosa della disperazione sempre mi trascina sulla riva spezzata, nel groviglio amaro dove nero è il sole. Affondo smarrito nella palude ingorda di ferite e cicatrici.
“Nel mare si può annegare anche l’anima”.
Io non appartengo né alla terra, né all’acqua, né al fuoco.
L’ARIA è il mio Elemento. Nel seno infinito del cielo. Fino ai bordi dell’alba. Nella magnetica danza del volo si rifugia la mia anima errante. Solo la violenta bellezza delle nuvole senza spazio è carezza per il nero groviglio che mi morde le viscere fin da quando ancora ero soffio di brezza.
“Il mio sogno era volare. Quando ho preso il brevetto, ho toccato il cielo con un dito.”
Non so stare nella vita di tutti i giorni, schiacciato da un eterno patire.
Ho viaggiato. Ho penetrato corpi sconosciuti. Ho accumulato ricchezze. Perché, accidenti, ci so fare. Con la gente. Con le donne. Con il lavoro. Ma non ci so fare con me stesso. Quel me stesso con il quale perdo continuamente la scommessa.
Ho sperato di trovare il mio nido. Ma io non posso fermarmi. Perché le mie ali vogliono librarsi e volteggiare. Io appartengo all’universo.
Poi, lo strappo. L’incidente. La cesura senza scampo. Il corpo segnato. Il prima e il dopo. Avevo trovato una casa alla mia anima inquieta. E ora sono di nuovo un profugo della solitudine, senza sogni e senza volo.
L’Eccesso è la lama oscura che mi rotola nella arterie, il mio finto talismano. Ho bisogno di volare. Fingo di possedere il cielo, per un istante breve.
Nel sesso sterile e bulimico.
Nella coca.
Nell’eroina.
Nell’alcol.
Mi vendo una manciata di dignità per avere un po’ di roba o per un bicchiere.
Striscio in quelle gracili chimere, briciole di morte dove cerco la pallida ombra di una stella. Inseguo l’abbraccio del lampo, lo sgorgare della luna nell’infinito lago del tempo, ma trovo solo sbarre e nodi scorsoi.
Quei mostri schifosi mi corteggiano beffardi, calpestano la mia sete animale con baci di ghiaccio e fiele.
Resistere all’urto dei giorni. Non cedere al canto infausto di sirene negate. Lotta senza fine.
“TU NON LO SAI. Nessuno sa cosa mi porto dentro. Vorrei morire, ma più di tutto vorrei vivere. […] È un’onda che ti spazza tutto dentro. Resti vuoto, un vuoto da riempire.”
Coloro che mi amano, che si distruggono con me non possono aiutarmi, perché non conoscono la mia anima.
Solo gli occhi suoi, vedono in me. E toccano le corde del mio pulsare dolente. In quel tenero sguardo a mandorla ho sentito le voci dell’aria, il respiro del mio respiro. Nel suo sorriso bambino ho letto le parole del vento liberato dal bosco. Le sue piccole grandi braccia mi avvolgono mute. Nel loro amore perfetto, profumo di nuvola, foglie sussurranti nell’azzurro, ali che accolgono le mie e le conducono nella bellezza fragile di un nuovo mattino.
“Per lei devo resistere. Ancora una volta”
Un’anima che si racconta senza compiacimenti né lusinghe. Voce asciutta e cruda, nuda e scalza che ripercorre la traversata nel fango putrescente di una vita consegnata al patibolo, alla voragine. Un Je m’accuse senza infingimenti.
Un racconto di vita che sposa l’andamento narrativo del romanzo perché solo l’affabulazione ha il potere di far appello all’intelligenza del cuore. Laddove la parola analitica parla alla mente e lì si arresta, disseziona il problema senza com-prendere. Un libro duro, necessario. Che fa appello al nostro epoché. Non ergere altari né pire. Accogliere il dolore e la disperazione. Scendere con la pelle e il cuore in quel vortice, in quella Tormenta che tutto travolge, impietosa.
Una narrazione in terza persona che però rifugge distacco e distanza. Voce che entra ed esce, senza sosta. Sguardo che coglie, attento e calibrato, le mosse del protagonista e che poi, d’un tratto, gli balza dentro, scava nelle sue viscere, fruga nei suoi pensieri, snuda la sua anima di piombo.
Grazie alla penna sapiente di Susanna De Ciechi il dramma di Renato Tormenta sembra farsi nostro. Scorrere nelle nostre vene. Smembrare le nostre membra. Il suo grido di dolore si impossessa del nostro battito e si fa viva carne sotto i nostri occhi.
Parola che si fa ferita, che sa cogliere, nel manto scomodo dell’abiezione, uno squillo di luce per farsi, un istante breve, poesia. E, forse, speranza …
“ Mi arrampicavo sull’albero di karaka,
fino ad un nido tutto di foglie,
ma soffici come piume.
Intonavo un canto che da sé poi proseguiva,
[…] io mi sentivo uccello.”
(K. Mansfield, Quando ero uccello)

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