Ho chiuso l’anno in compagnia delle ultime pagine di un libro di Paul Auster che mi è piaciuto molto: Diario d’inverno. Sono convinta che questo testo possa essere apprezzato soprattutto dalle persone che a un certo punto della loro vita, non importa se a cinquanta o sessant’anni o a un’altra età, sentano di essere giunte all’apice del loro percorso. Ciascuno di noi ha un proprio limite, quando viene conquistato iniziamo a scivolare su un piano inclinato, più o meno dolcemente, ciascuno potendo contare sulle proprie risorse, la propria indole, le esperienze maturate e la fortuna. Questo non significa che non si possa godere di una vita piena, che non si debbano fare progetti e intraprendere nuovi viaggi, anzi, la coscienza del proprio stato concede più sapore alla vita e una libertà che prima non si aveva. Semplificando molto, per i più fortunati è una ripartenza, un periodo stimolante che giustifica in pieno l’idea di una “seconda giovinezza” da spendere come si vuole, perfino esagerando; per altri è una caduta nella depressione, una lenta morte o un’inutile scampolo di vita.
Tornando a Diario d’inverno, l’autore si rende conto di essere al punto di svolta, in cima allo scivolo della vita e si inoltra nella vecchiaia con consapevolezza e amore per ciò che ha avuto e ha fatto. Paul Auster gestisce in seconda persona una “splendida narrazione imperfetta”. C’è lo scorrere del tempo con tutto ciò che ha contenuto la sua vita e riesce ad avvincere il lettore anche attraverso lunghi elenchi di cose fatte e di case in cui ha vissuto poveramente e di altre, quasi opulente, in cui ha amato stare. E ancora troviamo liste bislacche di cicatrici, affetti e relazioni, c’è spazio per lutti e amori e tutto è ricordato assaporando la frammentarietà dei ricordi mediati attraverso la memoria del corpo, che a volte ci permette di godere di quel che abbiamo e altre volte ci toglie il piacere di sapere della nostra fortuna, rendendoci ciechi rispetto a ciò che siamo. Tutto passa attraverso il nostro corpo, ce ne rendiamo conto meglio quando iniziano a mostrarsi le prime sfasature di cui all’inizio ridiamo: un dolore fastidioso, l’incapacità di sollevare al cielo nostro nipote, di trattenere il cane al parco, di fare i gradini di corsa o di fregarcene del meteo e uscire quando il termometro picchia sottozero.
Tuttavia, se siamo fortunati, i pensieri dentro il nostro corpo che invecchia, diventano più chiari, trasparenti e forse, riusciamo ad accordare il passo alla strada che scende dolcemente, senza fretta, verso l’ultima meta.

In Diario d’inverno Auster cita Joubert che aveva scritto: la fine della vita è amara. In seguito, a sessantuno anni, “annotò una formulazione diversa e molto più stimolante del fine vita: Si deve morire amabili (se si può)… Probabilmente non c’è successo umano più grande  dell’essere amabili alla fine, che sia una fine amara o no”.

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