«Prego!» L’impiegata del municipio indica la vaschetta alla base del vetro. Le sorrido e infilo nella fessura la mia vecchia carta d’identità, scaduta tanto da essere vintage. Però nel ritratto ero bella, com’ero molti anni fa.
«Servono tre foto.» Di nuovo batte con il dito sul legno. Sospiro e spingo dalla sua parte la mia faccia di adesso in formato tessera, borse sotto gli occhi e sorriso tirato. Non mi piaccio, non un granché. «I contorni sono rilassati» bisbiglio con voce soffocata mentre mi accarezzo una guancia. Parlare da sola è un’abitudine recente, forse il segnale di un nuovo cambio di passo.
«Firmi qui.» La donna fa slittare dalla mia parte un cartoncino e, finalmente, sorride. Ci separa solo una manciata di anni e io sono il preavviso di come i giorni si depositeranno sulla sua pelle, dei solchi che resteranno incisi intorno ai suoi occhi, sulla fronte, ai lati del naso. Le tracce di una vita che ti fa diventare ciò che sei e, se hai fortuna, non ti lascia rimpianti.
«Vuole dichiarare lo stato civile?» La donna fa girare la fede sul dito. Le mie mani, invece, sono nude. Non rispondo subito.
«Non è più obbligatorio dire che si è sposati» spiega in tono neutro. E aspetta. Del resto a fine luglio gli uffici dell’anagrafe sono quasi deserti e forse per l’impiegata rappresento un diversivo in un momento di noia.
«Va bene. Mettiamo che sono coniugata. Sono distratta. Spesso dimentico dove ho parcheggiato l’auto e, nel caso dimenticassi me stessa, saprebbero che c’è un marito da rintracciare.» Ridiamo e scambiamo ancora qualche battuta scema sugli uomini. Potremmo andare a prendere un caffé insieme, non fosse per quel vetro e la porta con la serratura elettrica, sempre chiusa, che segnano il confine.
«Ci ammazzano, ma allo stesso tempo ci concedono delle scelte» gigioneggia lei, seria. «Abbiamo la parità, almeno sulla carta.»
«A parole» aggiungo io. Adesso non vedo l’ora di andarmene, le conversazioni tediose mi fanno scappare a gambe levate.
«Capelli rossi, occhi verdi…» recita la donna. «Fa sempre la giornalista?» Mi guarda, curiosa. Dopo tutto siamo in un Comune alle porte della grande città, dove la gente è ancora sensibile al fascino immeritato che esercitano certi mestieri. Certo che era proprio vecchia la mia carta d’identità!
«No. Sono una ghostwriter
«Che cosa? Non so…»
«Lasci stare. Metta “scrittrice”.» Non ho voglia di spiegare cosa faccio, sarebbe uno spreco di energie e comincio a sentire caldo, la borsa sulla spalla mi pesa, mi sono ricordata che devo fare un paio di telefonate e, soprattutto, ora vorrei essere altrove. Come quasi sempre. L’irrequietezza è un mistero, mi ci sono rassegnata.
«Mi spiace!» dice a voce troppo alta. «Scrittrice non c’é.» Mi guarda, incredula.
«Ah, in Italia guadagnamo così poco da non meritare d’esistere. Va bene che con la cultura non si campa, ma negare il ruolo a chi scrive…» rido. «Ma è sicura?»
«Non mi sono spiegata» dice. «Non c’è scrittrice, ma c’é scrittore. Che faccio? La indico al maschile?»
Resto interdetta. Detesto qualsiasi questione di genere, non riconosco differenze tra gli essere umani, ma se potessi avere davanti le menti vuote che hanno scordato di codificare il femminile di scrittore… non so cosa farei. Chissà se è un limite imposto nel Comune in cui vivo o riguarda l’intero Paese? Comunque ritorno a casa con la carta d’identità nuova, valida fino al 2028 e, ammesso di sopravvivere fino alla scadenza, per tutto questo tempo mi toccherà essere Susanna De Ciechi, scrittore.
E non è neppure finita qui: devo fare il passaporto. Vi aggiornerò.

Nella foto la carta d’identità di Tina, la GhostTina, la mia #SimilJackRussell

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