Questa è la seconda parte dell’intervista a Alastair McEwen (la prima parte la trovate qui) Ho conosciuto Alastair in occasione della traduzione in inglese de Il mio ultimo anno a New York, il romanzo ispirato a una storia vera che ho scritto come ghost writer. Fino ad allora non conoscevo il mondo delle traduzioni, sapevo solo che i traduttori di narrativa sono scrittori professionisti in grado di determinare la qualità di un testo nella lingua di destinazione. Adesso che il lavoro è concluso e il libro è uscito da pochi giorni nella versione inglese (sarà disponibile in Italia il prossimo anno), ho chiesto ad Alastair di soddisfare le mie curiosità sul lavoro del traduttore anche in relazione alle sue collaborazioni con autori famosi. Infatti, Alastair McEwen è un traduttore speciale. Nato a Dunfermline, in Scozia, nel 1950, si è laureato in Lingue e Lettere presso Università di Stirling (U.K.) ed è Membro della Pen America Center, la prestigiosa associazione che promuove nel mondo la letteratura, la libertà di espressione e la difesa degli intellettuali perseguitati per le loro opinioni. Ha lasciato l’insegnamento nel 1986 per dedicarsi a tempo pieno alla traduzione letteraria e ha lavorato con alcuni degli scrittori italiani più noti nel mondo: Umberto Eco, Roberto Calasso, Alessandro Baricco, Vittorio Sgarbi, Aldo Busi, Antonio Tabucchi e tanti altri ancora. Ad oggi ha tradotto oltre una novantina di libri fra romanzi, opere di saggistica, articoli e poesie, oltre a una decina di sceneggiature, tre libretti operistici per Riccardo Cocciante e diverse canzoni di Eros Ramazzotti e di Vinicio Capossela. Nella sua carriera ha collaborato con molti dei massimi editori angloamericani e italiani e, per il cinema e la televisione, con la Miramax–Disney e la BBC.

Come sei arrivato a fare il traduttore?
Quando ero piccolo leggevo tanto e a un certo punto mi sono reso conto che nel mondo ci sono tante lingue: i personaggi nelle storie di avventura che divoravo dicevano cose strane tipo “Oui, mon capitaine” o “Jawohl, mein general” e robe del genere. Riconoscevo alcune parole ma non altre, e così dopo indagini approfondite ho scoperto che oui e jawohl significavano yes. E allora mi dicevo, bene, ma quando i francesi e i tedeschi dicono oui e jawohl, nella testa penseranno “yes”. Come se parlassero in francese o tedesco ma pensavano in inglese. Mi ci è voluto tanto tempo per capire che le cose non sono affatto così. I miei amichetti chiedevano ai genitori perché il cielo è blu o perché la luna non cade o perché i pesci non hanno le sopracciglia, ma io ero fissato con quella storia delle lingue. In realtà ero fissato con l’equivalenza, ma non lo sapevo ancora. Probabilmente ero fissato e basta, ma evidentemente avevo in me la stoffa del futuro traduttore.

Quali sono gli elementi di base per valutare una traduzione?
A proposito delle traduzioni c’è una vecchia massima: Se è bella, non è fedele; se è fedele non è bella. Ovviamente, ogni traduttore vuole rimanere più fedele possibile al testo originale. Ma come si fa? Se traducessimo un testo alla lettera il risultato sarebbe ridicolo. Prendiamo un detto italiano qualsiasi, chessò, “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino” e chiediamo a Google Translate (che ha una tendenza spiccata per la traduzione letterale) di tradurlo: “So goes the cat to the lard that leaves us the zampino”. Non ci vuole più di un’infarinatura della lingua inglese per capire che questo è una baggianata incomprensibile. Invitati a tradurre una frase così è necessario avere una conoscenza della cultura di fonte e una capacità di trovare una formulazione che rispecchi il “senso profondo” di un testo, che sarebbe appunto che se uno insiste in un comportamento rischioso prima o poi gli costerà caro. Una possibile traduzione inglese della storia della gatta sarebbe il proverbio “Curiosity killed the cat”, che veicola bene il senso del detto italiano e lo renderebbe comprensibile alla cultura d’arrivo. Insomma, è fedele al vero senso dell’espressione italiana ma non è certo fedele in senso lessicale, e quindi siamo autorizzati, anzi dobbiamo fare un cambiamento radicale al testo di fonte per veicolare bene il senso del detto italiano e renderlo comprensibile alla cultura d’arrivo.
Bisogna, però, avere un motivo buono prima di fare dei cambiamenti, siano radicali o meno. Ad esempio, recentemente, traducendo un periodo nell’incipit del romanzo di Susanna, ho scritto: “The road is packed with all kinds of vehicles, on two, four and even six wheels.” Il testo di fonte diceva: “La via è ingombra di veicoli di ogni misura, a due, a quattro e perfino a sei ruote.” Si tratta di un periodo semplice, che non richiede salti di ingegno per essere tradotto. L’editor, evidentemente in vena creativa, commentava a margine: “I would suggest being more specific to paint the picture of a NYC road: bike messengers, delivery trucks, taxis, car service SUVs, etc.” Riguardo a una traduzione, questo tipo di cambiamento non è ammissibile, per il semplice motivo che è una pura invenzione e come tale non è giustificabile. Come se traducessi Proust e, perché non mi piacciono le madeleine, decidessi di parlare di birbanti umbri o baci di dama.
Sia chiaro che un buon editor è essenziale nella produzione di un libro, sia una traduzione o no. Ma un editor incauto può anche combinare disastri. A mo’ di esempio, una volta traducevo una scena in cui il protagonista, un antiquario, sta girovagando per un mercato delle pulci. Trova un pezzo che riconosce per il lavoro di Luigi Coppedè, un architetto e decoratore italiano attivo a cavallo del XIX e XX secolo, e dice al suo compagno “Guarda, è un Coppedè!”. Ma quando ho visto le bozze, vedo, in inglese, “Look, it’s a Capodimonte!” Quando ho chiesto all’editor il perché del cambiamento mi ha detto che non sapeva chi fosse Coppedè e in ogni caso Capodimonte gli sembrava “più carino”. No comment.
E con questo mi riallaccio al massimo “se è bella, non è fedele ecc.”. Si capisce che c’è più di un pizzico di verità in questo detto, e infatti una delle tentazioni più insidiose per un traduttore è quella di abbellire il testo. E a volte la tentazione è molto forte, anche perché si sa che una frase pedestre non sfuggirà all’occhio vigile dell’editor.

Quali sono le caratteristiche un un editore apprezza di più in una traduzione?
Di norma, i revisori e gli editori per cui lavorano non sono tanto interessati alla fedeltà in sé, quanto alla leggibilità e scorrevolezza del linguaggio. Insomma, vogliono un testo talmente consono con l’ideologia e i costumi letterari della cultura d’arrivo che a nessuno verrà in mente che l’opera sia una traduzione. Vogliono l’invisibilità del traduttore, e magari anche l’invisibilità della cultura di origine. Insomma, l’idea, consciamente o inconsciamente, è di addomesticare la cultura di fonte al punto da farla somigliare in modo rassicurante alla cultura d’arrivo. Con questo non sto dicendo che una traduzione deve proprio sembrare una traduzione, o che deve “leggere come una traduzione”, ma se ci pensi su per un momento, cosa significa dire ciò? Che la traduzione è pedestre o legnosa o difettosa? Se sì, allora diamo pane al pane e vino al vino. Che male farebbe se un testo leggesse davvero “come una traduzione”? Sapere che un libro è una traduzione è in qualche modo un problema? Non credo che nessuno abbia mai criticato la Bibbia perché è una traduzione, e questo vale per tantissimi altri classici della letteratura mondiale. Ciononostante, la sentenza “legge come una traduzione” rimane un marchio di infamia, una condanna senza appello, l’incubo di ogni traduttore.
Forse vale la pena aggiungere che all’altra estremità dello spettro critico, nelle recensioni si legge spesso che una traduzione è “magistrale”, “impeccabile”, “ricca”, “gustosa”, “splendida”, “vivace”, “melodiosa” e chi più ne ha più ne metta, ma questi epiteti possono significare molte cose oltre a una bella traduzione, ad esempio che il recensore ha apprezzato il libro in genere, o che non ha trovato nulla di sospetto, o che lo stile gli è andato di genio, o che non sa niente della lingua di fonte (che è quasi sempre il caso), o perfino che sta avendo una storia con il traduttore. Insomma, le lodi di questo tipo sono semplicemente un altro modo di dire che quest’opera “non legge come una traduzione”. E così chiudiamo il cerchio.
Ma una delle funzioni, anzi la funzione della traduzione è la sua capacità e potenzialità di allargare i nostri orizzonti, di farci vedere e magari capire le cose diverse che un’altra cultura possa offrirci, di farci capire che in fin dei conti abbiamo tantissime cose in comune con il nostro prossimo, anche se parla cinese o urdu e vive lontano dalla nostra realtà. Nel mondo in cui viviamo, con i suoi orrori e bellezze, massacri e splendori, prima comprendiamo il punto di vista dell’altro, meglio sarà per tutti.

Ho un’ultima curiosità. Alcuni traduttori sostengono che, traducendo, diventano in qualche modo coautori del testo. Qual è la tua idea al riguardo?
Sarebbe divertente fare questa domanda ad Alessandro Baricco, ad esempio. Penso che darebbe fuori di matto alla mera idea.

Grazie, Alastair, conoscerti è stato un piacere. Ho imparato molto.

Qui di seguito il link alla prima  parte del Discorso sull’arte del tradurre con Alastair McEwen

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