Sono tornata a casa, o meglio sono atterrata sul letto. Ho dormito, ridormito, mangiato cibo nostrano. Sto bene e mica è cosa da poco. Mi sento un po’, appena un po’, un’eroina per avere volato sopra l’acqua per molte ore nonostante la mia paura dei voli lunghi, anche se con l’aiutino di una pastiglietta. Oddio, non che abbia mai affrontato a cuor leggero un volo breve, ma in quei casi lo stato di fifa dura meno ed è sostenibile. Ho vinto le mie paure e sono salita in cima a un grattacielo ripetendomi che Tra vent’anni sarai più infastidito dalle cose che non hai fatto che da quelle che hai fatto. Perciò molla gli ormeggi, esci dal porto sicuro e lascia che il vento gonfi le tue vele. Esplora. Sogna. Scopri. (cit. Mark Twain). Ora sono felice di essere di nuovo ancorata al mio computer e al mio lavoro di ghostwriter, dopo un soggiorno a New York in cui io e Nicoletta Molinari siamo state in balia di un instancabile diciannovenne, mio nipote Rodolfo. Avete presente lo scarto di energia che c’è tra una pantera grigia tendente al rosso e un prestante giovane uomo curioso di tutto? Qui Nicoletta non la metto in mezzo perché voglio evitare gaffe relative all’età; in ogni caso è lei quella che si è fatta affascinare da un virus newyorkese ed è tornata a Milano con la febbre a trentotto.

ghostwriterDel resto a New York spira sempre un vento teso che spazza le strade come una ramazza di saggina, ovvero sposta lo sporco ma non lo rimuove. Anzi, una delle sue caratteristiche, in alcuni quartieri più che in altri, è proprio l’aspetto trasandato che si manifesta in diversi gradi di sporcizia, da disordinato a lurido a bisunto. È una bella gara tra la Grande Mela e alcune nostre città. Per andare in esplorazione abbiamo usato tutti i mezzi possibili, escluso l’elicottero che pure era un’opzione praticabile; ci siamo spostati con i taxi gialli, l’abbiamo attraversato di notte, ammirando il gioco delle famose “mille luci” nel buio, su un’auto nera di Uber. È stato emozionante attraversare il ponte per andare da Brooklyn, dove soggiornavamo, alla 5th Avenue la sera dell’evento per la prima delle due presentazioni dell’ultimo libro che ho scritto come ghostwriter, titolo Il mio ultimo anno a New York. Abbiamo pedalato a Central Park, percorso chilometri a piedi e con la metro. La metro è la cosa che mi è piaciuta più di tutto con le scale simili a scorciatoie per l’inferno, a volte per il purgatorio a seconda dei quartieri, con ogni superficie ricoperta da una pellicola d’unto stratificata e inamovibile e i treni che custodiscono un infinito repertorio di stranezze. Nelle periferie che abbiamo visitato i vagoni sono popolati per lo più di neri. Molti dormono con il mento incassato tra le spalle e infilato nel collo dei giacconi di pelle screpolata, qualcuno lancia sguardi di traverso, forse in gola ha un nodo di risentimento e qui con la fantasia è possibile immaginare qualsiasi storia.  A mano a mano che il treno avanza verso il centro, le etnie si mischiano e il nero scolora, il paesaggio diventa più familiare. La città non mi ha conquistato fino in fondo, tuttavia mi è piaciuta soprattutto per certi quartieri, così diversi tra loro, per il confine che esiste sempre, e resiste, in cui sfumano le differenze di chi lì abita e mantiene una propria identità, ghostwriterper gli squarci di vita che si aprono differenti a ogni angolo. New York è da vedere. Anche se molto faticosa è una visita irrinunciabile per comprendere fino in fondo le cose di cui leggiamo e che ci vengono raccontate. Tuttavia una riflessione è inevitabile: noi italiani viviamo in un Paese sconquassato sotto ogni aspetto, da cui i giovani scappano, e spesso con ragione, ma nulla regge il confronto con ciò che abbiamo da offrire a chi venga a visitarci. Riusciremo un giorno a mettere a profitto le nostre bellezze? Forse no, ci siamo adeguati al ribasso e siamo tanto ignoranti da non riconoscere più i nostri tesori.

 

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