Per la prima volta pubblico un Guest Post, un nuovo inizio a fine anno è proprio nelle mie corde. Del resto era un atto dovuto per mettere fine alla discussione su New York sorta tra me e Nicoletta Molinari, mia amica ed editor. Devo fare una premessa: io e lei siamo amiche da molti anni, un’amicizia iniziata tra le pagine dei libri che tutte e due amiamo e che in seguito è sfociata in una collaborazione lavorativa tra la ghost writer e la editor, tuttavia siamo come l’acqua e l’olio. In comune abbiamo ben poco e i nostri gusti, e non solo in materia letteraria, sono molto diversi. Credo che, all’interno del nostro rapporto, ciò rappresenti un vantaggio; di certo non corriamo il rischio di annoiarci reciprocamente. Comunque, per farla breve, dopo avere raccontato “la mia New York”, passo la palla a lei che, pur avendola vista e vissuta insieme a me, ne ha ricavato una visione completamente diverse. Poi chiudiamo il capitolo U.S.A. Adesso che ho preso coraggio, come prossima meta ho la Cina. Vi pare poco? Nico, tu verrai con me?

ghost writerOh, Susanna, adesso mi tiri in ballo la Cinaaa! Intanto fammi raccontare come è andata l’avventura americana.
La decisione
«Tu ci verresti a New York con me per la presentazione del mio libro
La domanda era arrivata a bruciapelo in una tiepida giornata di primavera e la risposta non aveva esitato neanche un momento: «Certo, anche domani».
I passeggeri
“Anche domani…” Anche domani per modo dire! Sono del segno del Toro, io, e la mia parte Toro patisce sempre il distacco dalla “terra madre”, dalla casa, un tempo dalla mamma e da qualunque situazione ove io metta radici e laddove, dall’altra parte, ci sia invece l’in-co-no-sciu-to.
Susanna invece è dei pesci. Sono sempre due, tutti possono vederli nelle rappresentazioni grafiche dei segni zodiacali: uno va da a destra e l’altro a sinistra. Lei, poteva senz’altro contare sul più ribelle e intraprendente dei due per trovare il coraggio di attraversare l’Atlantico, dato che l’altro, il pesce fobico, faceva scene da pazzi anche solo all’idea di un volo dall’aeroplanino delle giostre. Ma alla fine quel pesce lì, quello irrazionale che sosteneva di essere claustrofobico, aviofobico e acrofobico, si è preso una pastiglia per pesci ansiosi ed è andato tutto a meraviglia.
La Editor e la Ghost writer erano sulla strada, o meglio, sul volo giusto!
Il viaggio
New York, bisogna desiderarti davvero molto per arrivare da te: almeno nove ore!
L’arrivo
Fortunatamente atterriamo alle sette di sera, meno un grado e la scommessa che i jeans si sarebbero tenuti in piedi anche se dentro non ci fossero state le gambe. Niente grattacieli da JFK al 375 di Lexington Avenue, Brooklyn. Anzi, ci scorrono davanti case basse di mattoni, avvolte da scale di ferro ricadenti da cima a terra come sciarpe talora nere, talora bianche, più raramente di un ruggine acceso. È già l’11 novembre, ma dai vetri di Brooklyn appaiono ancora scheletri spettrali e sui davanzali fuori dalle finestre si rincorrono zucche cave, zucche tonde, zucche coi denti, con gli occhi e con le gambe. È un po’ una delusione, noi che sognavamo le grandi luci di Manhattan. Forse anche un americano, atterrando a Malpensa, avrebbe trovato deprecabile non vedere fuori le guglie del Duomo di Milano. Niente Empire, niente Chrysler o Rockefeller. Ce ne facciamo una ragione.
La casa della fantastica e gentilissima Nancy, che affitta tramite airbnb, ci accoglie calda al secondo e ultimo piano dell’edificio. Ci accoglie ma non ci inghiotte perché New York, come recita il titolo del libro di Cognetti che mi porto dietro e sul quale ho già sottolineato meticolosamente tutto ciò che vorrei fare qui, è una finestra senza tende.
Le aspettative
Siamo arrivati fin qui per la presentazione dell’ultimo romanzo di Susanna e lei dovrà fare delle cose: interviste, foto, dichiarazioni. Io invece quello che dovevo l’ho già fatto: ho editato il libro, ormai è uscito e sono libera. Ho davanti una settimana di vacanza e sono felice!
La realtàghost writer
La realtà, questa sì che ci inghiotte a Manhattan, e ci mastica direttamente dentro un racconto di Bob Kane, insieme a Batman. Gotham City è lì da vedere, con i suoi grattacieli  di vetro luccicante che su, su, in alto, si mischiano a vecchie torri di mattoni rossi. Guglie di cattedrali gotiche gareggiano in cielo contro creature plastiche immaginate da architetti sovrannaturali. Intanto giù, nella strada, sfrigolano gli hot dog sulle griglie dei baracchini ambulanti, i semafori scandiscono un traffico ordinato, i tombini fumano e gli scoiattoli corrono frenetici nei prati e lungo i viottoli dei giardini mentre la gente scorre parallela, solo enormemente più grossa e colorata dei piccoli roditori, ma ugualmente frenetica, incurante e famelica.
Camminando con il naso verso l’alto e la bocca aperta, sbatto contro Spiderman, che in realtà  si chiama Alvin e arriva dal Canada. Sente che mi chiamano “Nico” e ripete: “Niccou” con il pollice in alto. Sono quasi commossa, adoro i supereroi della Marvel e mi trattengo dal baciarlo solo perché non è appeso da un’impalcatura a testa in giù!
Secondo me, però, Spiderman non arriva dal Canada e Alvin, forse, cela un incarnato olivastro sotto la maschera. Qui, il crocevia delle razze è talmente vasto da lasciarmi instupidita e guardandomi intorno è come se  il contrappunto alla fantasia dei super eroi fosse una realtà in tutto simile a quella di Star Trek, dove le razze si mescolano mantenendo inalterate le differenze. Quando ero poco più che ragazzina, andai  a Londra e fu  lì che imparai la parola “cosmopolita”. Eravamo negli anni settanta e non avevo mai visto così tanta gente di origine africana e orientale. A Milano non era ancora arrivato nessun tipo di immigrazione, se non quella dal sud Italia. E già era poco tollerata quella.
Il mio libro di Cognetti su New York a un certo punto cita Grace Paley: “I bambini a passeggio con le loro nonne parlano lingue straniere. Ecco la natura di questa città”.
ghost writerLa storia
Non posso non andare a Ellis Island, dove gli immigrati in arrivo da altri continenti a fine ottocento venivano fatti sbarcare prima di essere ammessi in America. L’immenso salone dove in fila, uno a uno, venivano interrogati su chi fossero, da dove venissero, cosa facessero, quanti figli avessero, mi lascia senza fiato. Immagino sia uno di quei frangenti in cui sono le persone a fare la differenza e la fortuna è davvero una dea bendata. Persone lungimiranti o persone ottuse a permettere, a vietare. Quanto potere e quanti destini in un solo turno. A me cosa sarebbe capitato: un brav’uomo o un burocrate? Mi pongo davanti al banchetto di legno dove sostavano gli immigrati. Dall’altra parte immagino una guardia che mi fa domande che non capisco e che qualcuno traduce. Le informazioni che fornisco vengono annotate su un registro, probabilmente storpiate così che il mio nome non sarà mai più lo stesso.  Da lì, si passa all’esame medico: bocca, cuore, pelle, polmoni, occhi. Il tracoma è una malattia degli occhi: è contagiosa e se hai quella non passi. Il controllo avviene con degli uncini con i quali le guardie rivoltano le palpebre degli immigrati come dei guanti. Attraverso le stesse stanze dove avvenivano queste cose, le attraverso una dietro l’altra, un percorso che in milioni hanno già fatto più di un secolo fa, ogni giorno, per anni. Le foto a dimensione umana rendono ancora più reali quei drammatici momenti. C’è anche una valutazione mentale e alla gente, spesso analfabeta, confusa e stremata da mesi di viaggio in mare in condizioni assai precarie, veniva chiesto di inserire correttamente oggetti di forme diverse nel vano della forma corrispondente. Una croce chiusa in un cerchio disegnata con il gesso sul cappotto significava: “Definite signs of mental disease observed”. Sembra tutto un po’ crudele, ma alla fine l’America ha accolto davvero milioni di persone dall’Italia, dalla Prussia, dall’Irlanda, dalla Germania, dalla Polonia e da tutto il mondo. Gente che oggi è americana, come i discendenti di Rosaria e Adolfo Baldizzi, il cui Tenment al 97 di Orchard Street è diventato un museo. Anche qui mi sono commossa e sono stata grata all’America per i miei connazionali, per averli accolti, per averli integrati, presto o tardi. La figlia di Rosalia e Adolfo è nata su suolo Americano intorno al 1930 ed è sempre stata cittadina americana. Così i suoi discendenti.

Susanna e io non siamo mai d’accordo su niente, amiamo autori diversi, le nostre visioni del mondo spesso ci portano a discutere e neanche Manhattan ci ha unite: io rapita, lei tiepida! Ma su una cosa noi due siamo d’accordo, ed è lo Ius soli. Mi sento male quando penso ai ragazzi nati in Italia da immigrati di prima generazione che, quando compiono diciotto anni, devono mettersi in coda fuori dalle Questure italiane per il rinnovo del permesso di soggiorno. E quasi sempre sono studenti, amici dei nostri figli cui all’improvviso tocca saltare la scuola per adempiere un dovere di stranieri che stento a comprendere! Parlano in romanesco, in napoletano, in bolognese. Si muovono in scooter, in bicicletta, in metropolitana, in autobus. A casa discutono sulla facoltà da prendere dopo la maturità, oppure proveranno a lavorare. Difficile, però, se non sei un cittadino italiano! Se non sei neanche un cittadino di un altro Stato. Se non sei nulla.
New York mi fa sognare che un giorno ci sarà un’Italia più giusta. (Testo di Nicoletta Molinari)

 

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