Chissà se incontrerò ancora lo sconosciuto ciclista di cui ho filmato la fatica qualche giorno fa, durante una passeggiata in Valle d’Intelvi! Mentre ero ferma sul bordo del sentiero per cedergli il passo e scambiare con lui il saluto di rito, ammiravo la tensione del suo sforzo, la determinazione nel voler arrivare in cima. Sono tanti gli amanti delle due ruote che nella bella stagione si avvicendano su percorsi più o meno impervi, senza risparmiarsi. La fatica, lo sforzo fisico liberano la mente, fanno nascere nuove idee e sollecitano anche la voglia di scrivere. Ecco in poche righe il nostro incontro:

Lo sento prima ancora di vederlo arrivare. Dal fondo della salita arranca alle mie spalle e pedala di potenza mentre la ruota della bici svirgola tra le rughe del sentiero graffiato dagli zoccoli di mucche e cavalli, dalle impronte di volpi e caprioli, di qualche cane con il suo padrone. Adesso il ciclista è più lento e scoordinato; incassa la testa fra le spalle, piega lo sguardo a terra, controlla la sofferenza che rende le gambe un legno e gli spezza il respiro.
La salita è fatica, quella fatica che in città non vedi spesso perché la gente si muove frenetica, tesa, rabbiosa, stressata e incazzata, chiusa nel sudario della sforzo di sopravvivere; l’attività fisica è merce rara, la devi cercare nelle palestre o sui ponteggi dei cantieri e comunque è una costrizione senza nobiltà. I ciclisti di città pedalano sul liscio dentro un ritmo fatto di spinte e attese, ripartenze e fermate in mezzo alle auto, ai pedoni, sotto il rosso dei semafori, rallentati dallo squillo del telefonino, dalla sterzata brusca per evitare una portiera che si apre o un mozzicone ancora rovente che zampilla da un finestrino. Anche questo andare è fatica, ma diversa, resa artificale da un ambiente in cui l’aria marcia taglia il fiato.
Sulla montagna il ciclista attraversa la vampa di luglio, attacca l’ultimo tratto del pendio sordo ai muggiti, allo stridio degli uccelli e al frinire delle cicale, ai crampi nei polpacci. In sella alla bici cerca la misura di se stesso per il gusto di provare a reggere lo sforzo, per il desiderio di arrivare in cima, solo, e dire: « Ce l’ho fatta».

Scrivendo di bici e ciclisti mi sono ricordata di Alex, il ragazzo protagonista del libro di Enrico Brizzi intitolato Jack Frusciante è uscito dal gruppo (1994). A diciassette anni Alex esplora il suo mondo cavalcando la bicicletta e spingendosi in cima alla salita dove abita la ragazza di cui si è innamorato. Ecco un assaggio di come Brizzi racconta del rapporto tra Alex e la sua due ruote:
Se il vecchio Alex pedalava con l’energia disperata di un Girardengo appena appena più basso e rock, non era solo per andare a un appuntamento, ma per allontanarsi da bordo ring, converrete. In ogni caso stava pur sempre per incontrare Adelaide e così quel matto pedalava dinamico come nessuno, e mentre pedalava cantava White Man in Hammersmith Palais con voce bassa e stonata (…) Due ore più tardi, eccovelo di nuovo in sella, il vecchio Alex, che pedalava arcicontento nella luce del primo pomeriggio; una qualità di luce che, per un secondo, gli aveva ricordato certi rari pomeriggi d’agosto un po’ sul tardi, e azzurri e limpidi come dopo una pioggia: i rari giorni di un agosto bolognese che per quell’anno lei non avrebbe visto.
Con la bici, intanto, andava sempre meglio. La sua potenza era aumentata, da quando aveva preso a lanciarsi su per via Codivilla.
La prima volta era arrivato a metà salita e il respiro gli si era spento dentro all’improvviso; aveva dovuto scendere, portare la bicicletta a mano fino al cancello (…)
Schizzava via come una revolverata dai viali, svoltava a destra per via San Mamolo, quindi, se non c’era traffico, all’altezza del baracchino dei gelati infilava, saettando come nessuno, la via Codivilla. Sul tratto in pianura accelerava al massimo, poi attaccata la salita di potenza sotto gli occhi sorprendentemente indifferenti dei rari passanti e automobilisti che scendevano anestetizzati incontro alla città. Cercava di tenere il rapporto di pianura, che ha il passo lungo e ti fa fare più strada, fin dove gli era possibile; poi si alzava a pedalare in piedi con tutta la bici che gli ballava sotto; quando sentiva che la pendenza diventava troppo forte, quando capiva che dopo altre due o tre pedalate avrebbe dovuto poggiare un piede a terra, lungo la curva di solito al primo cartello di divieto di sosta permanente, si piegava sul cannone e col pollice faceva scattare il cambio: la catena saltava sulla corona più piccola, le gambe ricominciavano a macinare; lui si spostava sul cordolo, al limite dell’asfalto, per evitare ogni palmo di strada superfluo: all’uscita della curva, poteva riprendere a pedalare stando seduto“.
Dite la verità: vi è venuta voglia di andare in bici?
 
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