Nei giorni che precedono le feste di fine anno spesso, per un motivo o per l’altro, capita di ripensare a ciò che lasciamo alle spalle; talvolta tentiamo un bilancio e riflettiamo sull’idea di mettere ordine nel caos di quello che abbiamo vissuto per ripartire con più slancio. Alcuni iniziano a rimuginare intorno a particolari ricordi e, per i motivi più disparati, sono presi da un rovello interiore.

 Qualcuno si lascia tentare dall’idea di scrivere la propria storia e, perché no, perfino di pubblicarla per farla conoscere ad altri.

È vero, scrivere serve a dare forma compiuta al tempo vissuto, è un modo per dare senso a un’esistenza e, nella maggior parte dei casi, è questo il motivo che spinge chi vuole raccontare di sé ad affrontare un progetto autobiografico. Il passo successivo, la scelta di scrivere un libro collaborando con uno scrittore professionista, è motivato dall’obiettivo di realizzare un’opera di qualità, che possa ambire alla pubblicazione e diventare un testo da mettere a disposizione dei lettori.

Anch’io non sfuggo alla regola del fare un bilancio degli ultimi anni, davvero tanti, vissuti come ghostwriter. Scrivendo le storie di altri, prendendo spunto dalle vicende reali di uomini e donne che si sono affidati alla mia penna ho conosciuto persone straordinarie e ho già in programma di conoscerne di nuove.

Ognuna delle storie che racconto è unica e deriva dal racconto orale e dai documenti che la persona che ne è protagonista mi fornisce. Il percorso che il protagonista dell’autobiografia, il narratore, compie nel richiamare i ricordi alla memoria lo porta a selezionare naturalmente gli eventi che mi narrerà affinchè io li traduca in forma di romanzo. Tuttavia egli deve sempre tenere presente che i fatti così come li ricorda sortiscono un intreccio narrativo diverso dalla storia reale. Ciò accade inevitabilmente anche se la premessa al lavoro autobiografico nasce dalla voglia di raccontare la verità con onestà e senza abbellimenti.

La trasmissione del materiale avviene nel corso di una serie di conversazioni in cui il narratore distende i ricordi come fossero panni sul filo del bucato: c’è chi mette in fila uno appresso all’altro i capi bianchi e quelli colorati, maglioni di cachemire e mutande con l’elastico lento insieme a calze spaiate. Alcuni usano le mollette per essere certi che il vento non disperda i vestiti, altri li sistemano a caso, in equilibrio precario. C’è anche chi, pur avendo un gran bucato da stendere, lascia alcuni spazi vuoti sul filo e dimentica di disporre all’aria maglioni e giacche pesanti che restano nel cesto, ancora impregnati d’acqua, ad ammuffire.

Il bucato che non viene steso ad asciugare rappresenta i ricordi nascosti, difficili da esibire perfino a noi stessi. Talvolta capita che il narratore racconti con scioltezza la propria storia fino al momento in cui scopre, suo malgrado, che qualcosa lo induce a tacere alcuni particolari ricordi. Le cause possono essere diverse, spesso un silenzio su un passaggio importante dipende dalla capacità, o meno, del narratore di prendere coscienza di quel momento della sua vita.

Tuttavia, la memoria, i ricordi, le emozioni che genera il ricordare sono il materiale da costruzione del racconto autobiografico. Lo scrittore è l’architetto che darà loro un ordine e li organizzerà allo scopo di creare una struttura letteraria adatta a contenerli, solida e coerente. Per questo i vuoti vanno riempiti anche se talvolta è impossibile dare voce a certi silenzi. In questi casi lo scrittore deve essere tanto abile da raccordare la storia nella misura del romanzo, perfino oltre lo spunto autobiografico.

Sorge una domanda: come va interpretata la parte della storia non confessata? Io penso che i silenzi siano messaggi preziosi e abbiano un significato e un peso diverso per il narratore e per lo scrittore. Anch’essi contribuiscono alla narrazione e a definire la migliore delle verità possibili per chi racconti, tacendo.

I legami fra un essere e noi non esistono che nel nostro pensiero. L’affievolirsi della memoria li allenta (…) è da soli che esistiamo. L’uomo è l’essere che non può uscire da sé, che non conosce gli altri se non in sé.  (Marcel Proust)

Immagine dal web: dipinto di Jeffrey T. Larson

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