Dove va il self-publishing? È una delle domande che, come ghost writer e lettore forte, continuo a farmi. Ho cominciato a cercare qualcuno in grado di fornirmi delle risposte.
Nunzia Assunta D’Aquale, romana, è un personaggio poliedrico, infatti, oltre che blogger, autrice e critica letteraria e anche un’esperta di comunicazione e, tra le altre cose, attenta osservatrice dell’evoluzione del fenomeno self-publishing. Se volete conoscerla vi consiglio di cominciare dal suo blog Negli occhi e nel cuore, ma seguitela anche nelle collaborazioni con diversi blog che si occupano appunto di social media e self-publishing. Da lei c’è molto da imparare. La sua tesi sperimentale incentrata sul fenomeno del Self publishing si è svolta attraverso una ricerca sul campo, utilizzando la tecnica dell’Osservazione Partecipante, e la raccolta dei dati è stata condotta mediante interviste a testimoni privilegiati, tra i quali autori self publisher, editori e operatori del settore. Inoltre proprio per sperimentare direttamente l’esperienza dell’auto pubblicazione, Nunzia ha pubblicato un book-test che consiste in un’antologia di racconti dal titolo Respiri del cuore. Questa opera le ha consentito di raccogliere ulteriori dati molto interessanti, di valutare il fenomeno in prima persona e di analizzarlo quindi anche dalla parte degli autori self.

Il self-publishing sta vivendo un’evoluzione positiva, infatti, oggi diversi autori lo utilizzano in modo professionale, gestendo l’intero iter della pubblicazione con il supporto di professionisti esterni per quegli aspetti su cui non hanno competenze. Alcuni di loro hanno assunto il ruolo di editori in proprio prendendo la parte in modo molto serio e ciò è un bene. Tuttavia resiste, e credo a ragione, una forte prevenzione verso gli auto-pubblicati perché le piattaforme come Amazon & Co. sono ancora il luogo in cui gli hobbisti della penna sversano testi di poco o nullo valore, anche mal confezionati. In questo caso la mancanza di una barriera all’ingresso è negativa. Ci sarebbe l’esigenza di trovare un modo per differenziare le produzioni all’origine. Quali possono essere le possibili soluzioni a questo problema?
Iniziamo con una premessa: il self-publishing può inquadrarsi in quel fenomeno, noto come disintermediazione, che oggi sta prendendo piede non solo nel mondo letterario, ma che riguarda in generale tutti i cosiddetti User Generated Content (UGC). Ritengo che questi due aspetti siano strettamente connessi con la tematica dell’autoproduzione in quanto gli UCG sono proprio i contenuti creati dagli utenti, in modalità autonoma e senza l’intermediazione o filtri di altri soggetti. L’User Generated Content (UGC) nasce nei primi anni del duemila, quando per la prima volta viene dato un nome alla consuetudine degli internauti di creare contenuti per il web senza passare necessariamente attraverso i canali di distribuzione ufficiali, anche se fin dall’origine l’ambiente digitale si è contraddistinto per la totale assenza di filtri che limitassero la libertà espressiva degli utenti. Tale libertà si traduce, nella maggior parte dei casi, nella produzione autonoma di contenuti di qualunque genere: dal testo alle fotografie, dai filmati alle tracce audio, sino a vere e proprie creazioni artistiche realizzate con mezzi informatici. Con l’avvento del web 2.0 gli orizzonti si sono ulteriormente allargati sia per i produttori di contenuti che per le aziende che si occupano di comunicazione, per le quali lo sviluppo degli UCG ha rappresentato una svolta importante che ha portato alla nascita di nuove forme di collaborazione con gli utenti, attraverso la creazione di ambienti e strumenti che hanno permesso ai non professionisti di pubblicare i propri contenuti in luoghi importanti. Perfino l’OCSE si è occupato di questo fenomeno e attraverso un rapporto dedicato, The Value of User Generated Content, fornisce dei criteri per la definizione di UGC: innanzitutto ritiene che sia indispensabile la presenza di uno sforzo proteso alla creazione di un contenuto mediale di qualsiasi natura e che questo venga reso disponibile sul web o altre piattaforme connesse in rete. Altro requisito importante è che il contenuto, anche se non prettamente amatoriale, non rappresenti la principale fonte di guadagno per l’autore. Quindi la produzione legata al self-publishing rientra a pieno titolo in questa tipologia. Stabilita quindi l’origine di questo fenomeno, ritengo sia importante spendere due parole proprio sulla disintermediazione, in quanto è proprio quella che in genere ha provocato un significativo abbassamento della qualità delle opere auto-pubblicate. Nell’odierna situazione, con la nascita delle nuove piattaforme di self-publishing, qualsiasi utente dotato di competenze informatiche di base, è in grado di auto-pubblicare le proprie opere e di raggiungere direttamente il lettore. Tale “democrazia editoriale” ha comportato una serie di vantaggi e svantaggi, poiché se da una parte consente la libera circolazione della creatività, dall’altra tende a far aumentare l’overdload di dati, le informazioni a cui l’utente-lettore è costantemente sottoposto e genera problematiche inerenti la qualità dei contenuti in quanto manca in definitiva il controllo dell’editing che generalmente viene messo in atto dalle case editrici, che filtrando i contenuti degli autori garantiscono (non sempre) l’acquisto del lettore. Si presuppone che un romanzo pubblicato da una casa editrice sia un prodotto esente sia dai difetti di forma, che da quelli di contenuto dato che il lavoro di editing non si riferisce solo agli aspetti formali del testo, ma entra nel merito della coerenza narrativa e dell’organicità occupandosi, quindi, anche di correggere errori che riguardano l’aspetto narrativo vero e proprio. Con lo sviluppo della digitalizzazione nuove frontiere sono state aperte, e soprattutto con l’avvento dell’ebook, anche agli utenti è stata data la possibilità di auto-pubblicare le proprie opere, attraverso gli strumenti che il web ha messo loro a disposizione. L’intero processo collegato alla pubblicazione di un testo, prima ad esclusivo appannaggio delle case editrici, passa alla gestione diretta dell’autore che può anche avvalersi di figure professionali a cui delegare l’editing oppure la parte grafica. Tuttavia un autore intraprendente può acquisire nuove skills professionali, assumendo totalmente il controllo dell’opera riguardo tutti gli aspetti, dal copyright alle strategie di marketing. Chi non possiede tempo e capacità per dedicarsi a queste attività trova nella frequentazione di gruppi e forum di scrittura un aiuto concreto, attraverso la collaborazione e la condivisione del know-how appartenente al bagaglio di esperienze di ciascun utente. Nei gruppi infatti, spesso sono presenti editor, web designer, illustratori e perfino editori, o semplici utenti che hanno già alle spalle esperienze di pubblicazione e che, animati da uno spirito collaborativo, mettono in campo le proprie conoscenze, anche di natura professionale, in cambio di altre informazioni.
La creazione da parte di Amazon della piattaforma di auto pubblicazione Kindle Direct Publishing (KDP), ha permesso una produzione di contenuti pressoché illimitata, e questo potrebbe rappresentare una forma di “sfruttamento” degli autori self-publisher, i quali allettati dalla prospettiva di una pubblicazione relativamente semplice dal punto di vista tecnico e soprattutto a costo zero, sono incentivati ad utilizzare il self-publishing per diffondere le loro opere. Dal canto suo Amazon, basando la sua attività sulla coda lunga della produzione incrementa i propri guadagni sulle royalty dei contenuti pubblicati, sempre più consistenti, senza attuare filtri qualitativi. La produzione di opere di bassa qualità è forse il più rilevante dei problemi inerenti il self-publishing e molto spesso sono proprio gli autori a mettere in discussione la qualità dei libri auto-prodotti, riconoscendo l’irresponsabilità di alcuni soggetti che, immettendo sul mercato testi non curati a qualsiasi livello, contribuiscono ad alimentare il pregiudizio che molti lettori, editori e autori hanno nei confronti di questa pratica. Tuttavia, considerando l’aspetto qualitativo nel corso del tempo, si può osservare l’aumento dell’attenzione posta nei confronti di questo problema, risolto in parte con l’aiuto dei gruppi di scrittura, come detto in precedenza e in parte rivolgendosi alle agenzie letterarie o ad altri soggetti professionalmente adeguati. Oggi gli autori sono sempre più convinti che la qualità di un’opera sia essenziale per ottenere il giudizio positivo dei lettori e che la selezione dei testi meritevoli sia un processo naturale, in quanto sarà il mercato stesso a decretarne o il successo o la disfatta. Tuttavia credo che, per superare l’overload di contenuti, sia necessario differenziare le proprie opere attraverso la continua ricerca di idee innovative, soprattutto usufruendo delle nuove tecnologie nell’ambito dell’editoria digitale. Pensiamo, per esempio, a tutte le possibilità che può offrirci un ebook, con la creazione di contenuti interattivi, ma che spesso vengono ignorate dagli autori emergenti. In un libro elettronico si può dar vita a una sinergia di diverse modalità espressive e inserire quindi link che riportano a contenuti esterni, condividendo musica, filmati video e altro ancora, opportunità che soltanto la versione digitale può offrire. Quindi sfruttiamola!

Forse sbaglio, ma il self-publishing finora mi è sembrato la casa ideale per le narrazioni di genere, meno per la letteratura mainstream. Anche in questo caso le cose stanno cambiando e come?
Il self-publishing è innanzitutto una palestra di sperimentazione, dove gli autori possono esprimersi senza alcuna limitazione o senza l’influenza di quei soggetti editoriali che tendono a “manipolare” i testi in base alle esigenze commerciali del momento, attuando modifiche anche strutturali senza aver ascoltato il parere dell’autore. L’autonomia è uno dei principali vantaggi ravvisati nell’autoproduzione. Tutti gli autori intervistati nell’ambito della mia ricerca sul fenomeno hanno ribadito la necessità di essere completamente liberi di scegliere i temi, e di conseguenza il genere, in cui inquadrare la propria produzione letteraria. Molti autori, che in precedenza si sono visti rifiutare la pubblicazione, hanno avuto la possibilità di diffondere ugualmente il proprio pensiero dando vita a insolite e originali opere che altrimenti non avrebbero mai visto la luce, ma sarebbero rimaste relegate nel famoso “cassetto”. A volte le case editrici, in special modo quelle più autorevoli, sono state accusate di dar vita a un livellamento massificante dei propri cataloghi, annullando la personalità dell’autore per piegarla alle esigenze di mercato, ma le cose ora stanno cambiando e anche produzioni di nicchia possono avere la possibilità di essere pubblicate e diffuse. Ritengo che questa sia una conquista molto rilevante.

Uno degli aspetti più problematici nella gestione dell’auto-pubblicazione è a mio avviso la parte legata alla promozione. Ci piacerebbe capire in che direzione andare, quali sono le cose da fare e quelle da evitare. Soprattutto come uscire rapidamente dalle solite cerchie. Ormai l’impressione è che anche Facebook sia un paese.
Sempre nell’ambito della mia Osservazione Partecipante, ho effettuato una ricerca molto approfondita sui temi legati alla promozione delle opere pubblicate e i risultati sono stati davvero interessanti.
Mentre inizialmente nei vari network di scrittura gli utenti erano molto interessati allo scambio di conoscenze e alla condivisione, allo stato attuale questi spazi virtuali sono diventate oramai delle vere e proprie vetrine promozionali, dove gli iscritti si limitano a pubblicare i link di acquisto del proprio ebook, estratti di contenuto o notizie relative a sconti e offerte temporanee. Quello che ora cercano gli autori è dunque soprattutto la visibilità. L’utente è divenuto non solo generatore dei prodotti diffusi nel web, ma la disintermediazione, oltre che i processi di fruizione dei prodotti testuali e audiovisivi, ha riguardato anche la comunicazione di tipo commerciale. Gli autori self-publisher stanno ottimizzando l’aspetto promozionale che offre la grande vetrina Facebook e attraverso accurate strategie si stanno appropriando di alcune tecniche di social marketing, che poi sono diventate pressoché virali nella comunità del self-publishing.
Tuttavia, l’attività di promozione può avere anche un risvolto molto negativo, dato che in alcuni casi si trasforma in uno spamming piuttosto pervasivo tanto che in alcuni gruppi è stato necessario regolamentare questo tipo di azioni, fornendo orari e spazi dedicati espressamente alla promozione. Generalmente come spam si identifica dunque l’invio di messaggi pubblicitari indesiderati, che possono infastidire gli altri utenti. Tale comportamento potrebbe anche essere non intenzionale, ma molti autori fraintendono l’utilizzo degli strumenti messi a disposizione dai social network, pongono in atto strategie non corrette senza rendersi conto che la presenza nei gruppi deve essere soprattutto costruttiva e apportare valore aggiunto alle esperienze di tutti i partecipanti. Tuttavia, molto spesso gli autori non hanno interesse a creare relazioni e a interagire con gli altri utenti e la loro attività si riduce alla pubblicazione della copertina del libro o dell’ebook, del riferimento a recensioni ricevute o della pagina dedicata alla propria opera. Come detto in precedenza, il gruppo nasce come luogo di confronto e di scambio su tutto ciò che riguarda la scrittura e l’universo editoriale, dove si tessono relazioni costruttive, mettendo a disposizione il proprio bagaglio di esperienze personali. Un altro effetto negativo di questa attività di spamming è l’intasamento di post della timeline delle persone iscritte al gruppo, che ricevono notifiche continue di uno stesso autore impegnato nella promozione del proprio ebook. Anche il cosiddetto tag selvaggio, una sorta di spam subdolo, risulta essere un’altra pratica molto diffusa, che consiste nel taggare gli utenti su foto o immagini pubblicate, sempre relative a comunicazioni di tipo pubblicitario, come per esempio la cover dell’ebook, con lo spiacevole risultato che le persone taggate oltre che avere la bacheca intasata da immagini si sentono coinvolte loro malgrado in un’azione di marketing.
lo scrittore inglese Ewan Morrison, citato da Loredana Lipperini sul sito di Repubblica.it, dichiara che: «Il self-publishing è un esempio di privatizzazione della cultura e dell’atomizzazione dell’individuo sotto il consumismo. Gli autori auto-pubblicati sono i veri NeoCon». Secondo Morrison in cinque anni, i guru del web hanno ripetuto che i social media erano l’unica strada per vendere libri, ma che il self-publishing è una bolla che scoppierà nei prossimi diciotto mesi «inestricabilmente intrecciata con il marketing dei social media». Crollati questi ultimi, svaniranno anche i sogni degli scrittori. Le tecniche promozionali che coinvolgono i social media risultano essere troppo dispendiose in termini di tempo e l’autore, che si auto promuove, dovrebbe trascorrerne moltissimo sul web per ottenere scarsi risultati. Quindi Morrison ritiene che nella “nuova” self-editoria si ripropone lo stesso meccanismo di quella tradizionale: pochi che vendono molto, molti che vendono pochissimo. La differenza è che le multinazionali della rete possono capitalizzare milioni di piccole vendite da milioni di piccoli autori. Morrison chiede: «Vuoi spendere l’80% dell’ 80% del tuo tempo parlando di gatti su Facebook nella speranza di incrementare del 2% le vendite di un libro che hai scritto in diciotto giorni e facendo propaganda all’ industria dei social media? O vuoi essere al cento per cento uno scrittore?» In questa considerazione si trovano, a mio parere, molti spunti di riflessione.
Da non sottovalutare anche un altro aspetto, prettamente sociologico, che sta interessando proprio l’ambiente dei social network e di Facebook in particolare; secondo alcune teorie critiche, questi ambienti virtuali si stanno trasformando in una serie di giardini recintati, dove è possibile filtrare contenuti e utenti in base ai propri interessi e al proprio modo di pensare, creando quindi network di persone simili sotto tutti i punti di vista e dando luogo quindi a un processo di omologazione culturale che elimina di fatto un eventuale confronto di idee.
Credo che il modo per uscirne sia abbastanza semplice, evitare il più possibile le tecniche sopra descritte e dedicarsi invece a un’attività più sporadica, ma forse più significativa, di interazione costruttiva negli spazi dedicati, soltanto facendosi conoscere attraverso l’espressione del proprio pensiero, si può suscitare interesse nei confronti delle proprie opere.

Ho letto diversi tuoi articoli molto interessanti. Su MediaPeriscope hai scritto: “ …a fronte di una tale democratizzazione dell’informazione, si segnalano alcune posizioni nettamente contrarie, le quali segnalano un’eccessiva marginalizzazione dei modelli tradizionali… l’uso flessibile e situazionistico dei mezzi di comunicazione utilizzato per generare azioni collettive e cambiare lo stato delle cose. Attraverso tale modalità partecipativa gli utenti possono narrare e criticare gli eventi sociali con l’uso dei personal device, condividendo foto, video o pubblicando post… quello che si sta delineando è uno scenario critico e distopico, in quanto tali strumenti si rivelano inefficaci per condurre a un reale cambiamento… la società globalizzata si sta evolvendo in maniera negativa a causa dell’utilizzo delle tecnologie digitali”. Ho estrapolato queste frasi da un contesto specifico, ma la conclusione del discorso è inquietante. Quali saranno i prossimi cambiamenti della comunicazione in rete e quali riflessi può generare nella realtà sociale? Insomma, dove stiamo andando secondo te, in un momento storico oltre tutto così complesso sotto ogni punto di vista?
Per rispondere a queste domande dobbiamo necessariamente spostarci nell’ambito sociologico e analizzare alcune delle teorie critiche che riguardano la jweb comunicazione. La cultura partecipativa della rete, l’appartenenza a comunità e network virtuali e i contenuti generati dagli utenti, hanno suscitato posizioni anche molto ostili da parte di soggetti provenienti dagli ambiti più diversi, appartenenti al mondo della ricerca universitaria, a quello della riflessione sociologica, nonché giornalisti e scrittori. Tutti accomunati dalla critica, a volte anche aspra, rivolta ai nuovi ambienti virtuali che popolano la Rete.
Andrew Keen, per esempio, ritiene che i social media siano la più travisata e distorta trasformazione culturale dai tempi della rivoluzione industriale e si scaglia soprattutto contro la grande vetrina virtuale di Facebook. Keen ritiene che ci sia un eccesso della condivisione e dell’esibizionismo e che i social media stiano indebolendo e frammentando l’identità delle persone e non creano le idilliache comunità virtuali, tanto decantate da certi autori; al contrario disorientano, dividono e favoriscono la nascita di una vera e propria “aristocrazia digitale”. L’utilizzo dei social media è diventato talmente pervasivo che si rischia di vivere la maggior parte dell’esistenza in una realtà virtuale e che quindi la proiezione della propria immagine sia ritenuta molto più importante rispetto all’io reale.
L’atteggiamento critico nei confronti dei nuovi spazi di intrattenimento viene condiviso anche da Eugene Morozov, il quale sostiene che i contenuti di Internet stanno diventando una forma di intrattenimento infinito e a buon mercato, creato appositamente per le masse e che è in grado di anestetizzare le coscienze e quindi spostare l’attenzione dalla partecipazione civica, anche di quei popoli soggetti all’oppressione politica più feroce. Gli spazi virtuali di condivisione non possono essere considerati strumenti di conoscenza, autocoscienza e liberazione e invece di uniformare globalmente consumi e stili di vita, sembrano aver dato voce ai pregiudizi, ai localismi e ai nazionalismi più deteriori.
La citazione nella tua domanda fa invece riferimento a Lovink, altro autore fortemente critico, il quale profetizza per Internet uno scenario critico e distopico, in quanto questi ambienti virtuali si rivelano inefficaci per condurre a un reale cambiamento, riallacciandosi quindi anche alla teoria di Morozov, secondo la quale la società globalizzata si sta evolvendo in maniera negativa a causa dell’utilizzo delle tecnologie digitali. Lovink in definitiva ritiene che il web non è affatto l’osasi di libertà come molti credono, ma si stia trasformando rapidamente in quei “giardini recintati” a cui ho accennato in precedenza.
In parte sottoscrivo queste teorie, anche se ritengo inutile dicotomizzare nettamente le posizioni e ripetere quello che è già successo in passato riguardo alla TV, dando origine a quella famosa diatriba tra due opposte fazioni che proprio Umberto Eco definì Apocalittici e Integrati. Oggi è indispensabile controllare la tecnologia e non divenirne vittima, sfruttando appieno tutte le possibilità che essa ci offre. Il web è stato fondamentale per lo sviluppo e la diffusione del self-publishing, tuttavia occorre evitare le derive e non trasformare uno strumento così utile in un qualcosa di diverso, di pericoloso. Si ritorna così al solito assioma: non è la tecnologia a essere pericolosa, ma sono gli uomini che possono renderla tale!

 

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