Voglio parlarvi della mia amica Silvia, maestra d’asilo ancora attiva alla bella età di sessantaquattro anni. È una donna esaurita da una vita faticosa fatta di tanti problemi in famiglia; nonostante ciò si dedica al volontariato e aiuta i più deboli. Ora però il fisico risente degli anni e non sempre segue le buone intenzioni. Da qualche tempo Silvia ha iniziato a contare i mesi che la separano dalla pensione. Ogni tanto la incrocio nell’orario di uscita da scuola, i capelli sempre più grigi, gli occhi gonfi, i contorni del viso frastagliati dalle pieghe di una pelle che ha perso tono e vigore. Cammina spedita, Silvia, la schiena un po’ curva e lo sguardo fisso all’angolo della via, la meta oltre la quale si sente quasi arrivata a casa. Qualche volta scambiamo due parole, ma è raro perché rispetto la sua urgenza di riposo, quel senso di ritrovata quiete che immagino sia la sua cura nel momento in cui chiude la porta alle spalle e si libera delle scarpe per poi affannarsi nelle incombenze cui la costringe il suo ménage familiare.

Oggi l’ho intravista al centro di un gruppetto di donne e mi sono avvicinata. «Cosa c’è? Non stai bene?» Lei piangeva, le altre le tenevano le mani sulle spalle, una le carezzava i capelli secchi come la saggina, un’altra le toccava il polso.
«Non è niente. Scusate. Non fa niente» mormorava Silvia, a disagio mentre si soffiava il naso.
«Allora?» ho sollecitato una tipa che conosco di vista, una sui quaranta con la coda di cavallo e l’espressione aperta di chi non si tira indietro se deve dire qualcosa.
«C’è stato casino in classe e un bambino l’ha picchiata e poi l’ha mandata affanculo» mi ha risposto tenendo gli occhi su Silvia, poi alla fine ha girato lo sguardo a trafiggere le nuvole.
«No» Silvia è intervenuta a voce troppo alta. «Matteo mi ha dato solo dei colpetti, non mi ha picchiato. Lo fanno i bambini, ma non è picchiare.» Era arrabbiata. «Io volevo che smettesse di strappare le pagine di un libro e lui ha cominciato a gridare: Vaffanculo, cicciona!» Ha tirato un respiro profondo, per trattenere le lacrime, ma poi ha ripreso a singhiozzare. «Nessuno dei miei bambini mi ha mai trattato cosi.» Era disperata e umiliata. Una collega cercava di consolarla dicendole che a tutte le altre era già capitato tante volte di essere insultate.
In quel momento Silvia ha smesso di essere una maestra, gliel’ho letto in faccia. Voleva andarsene da lì e non tornare mai più indietro. Alla fine si è ripresa, ha rifiutato l’invito al bar per un caffé e si è incamminata verso casa, un po’ più curva del solito, più grigia, i movimenti smerlati in un dondolio sconnesso. Prima di avviarsi ha detto che non avrebbe denunciato l’episodio alla dirigente scolastica, che non ne valeva la pena e poi sarebbe stato inutile.

Io ho pensato a Matteo, quattro anni, già un piccolo bullo in erba; ho immaginato la sua famiglia e ho provato una grande pena.

Per alcuni ragazzi e per certi genitori il bullismo è uno stile di vita che appartiene a un modello di società abitato da gente senza arte né parte, tutta azione, immagine, arroganza e niente pensiero. Quali sono i metodi per arginare il fenomeno? Non ne ho idea, se guardo alle cronache ho l’impressione che gli episodi siano sempre più gravi e frequenti. Forse varrebbe la pena di costringere i bulli e i loro genitori a trascorrere un periodo di tempo insieme, privi di qualsiasi connessione, obbligati a parlarsi, a confrontarsi, a scrutarsi l’anima e a rivelare il grande vuoto che hanno dentro, senza alcuna distrazione dall’esterno: almeno un mese chiusi in istituti di rieducazione per famiglie. Magari sarebbe una cura da provare.

Immagine dal web.

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