L’evidente, e permanente, stato di sofferenza del comparto dell’editoria è noto a tutti da tempo e su questo tema le analisi e gli articoli sono numerosi. Al contrario, è poco frequente leggere dei post sul tema della sciatteria, se non dell’incompetenza, di certi editori dal punto di vista formale.  Tralasciando il discorso sulla qualità dei testi, talvolta pubblicati senza avere passato il vaglio dell’editor e del correttore di bozze, nella mia biblioteca ho una serie di “perle” prodotte da editori di tutte le misure, grandi, medi e piccoli, che mostrano svarioni colossali: c’è chi si è dimenticato l’indice, una sciocchezza, chi costringe il lettore ha squinternare il libro per poterlo leggere perché non ha concesso spazio ai margini, chi si è scordato di inserire due righe di bio sull’autore, uno famoso, come del resto l’editore, in questo caso non proprio piccolo, per tacere della scelta dei caratteri. L’elenco potrebbe continuare.

A parte lo sconcio di certe pubblicazioni, è un dovere dare attenzione e merito a quegli autori che. scegliendo di pubblicare in SelfPubPro, si mettono il cappello del piccolo editore e producono libri avvalendosi della collaborazione di professionisti qualificati. Il risultato delle loro pubblicazioni è di gran lunga migliore di quello prodotto da certi editori che, al contrario dei SelfPubPro, sembrano lavorare sulla base di conoscenze vaghe, tipiche del peggior SelfPub-FaiDaTe.

Degli editori che non sanno fare il loro mestiere ne ha parlato Rosario Esposito La Rossa su Il Fatto Quotidiano, titolo dell’articolo I piccoli editori sono ignoranti (lo potete leggere qui). La Rossa, che non entra nel merito della qualità e della numerosità delle opere pubblicate, sostiene che: “Basta passeggiare per le vie delle fiere italiane, quello che viene fuori è l’approssimazione. Piccoli editori che scimmiottano i grandi (male), emulano (male), parlano continuamente di numeri. Ma qual è il compito di un piccolo editore se non tutelare la bibliodiversità. Produrre libri diversi, con altri semi, fuori dalle logiche dei grandi numeri, libri che il colosso di turno non potrebbe mai pubblicare. I piccoli editori dovrebbero osare, in tutto, dai contenuti alla forma. Nelle fiere dovrebbero annientate i grandi per la cura, la dedizione e la particolarità dei volumi. E invece nella piccola editoria italiana c’è un analfabetismo di ritorno. Oggi chiunque si sente editore perché appone ad un libro un codice Isbn”.

E alla fine l’autore del post suggerisce che forse servirebbe “… una scuola dove si parli poco di numeri e tanto di inchiostro, carta, formati, impaginazione, alta leggibilità, ci vorrebbe. Non una scuola per omologare, ma per educare all’editoria. Educare, dal latino ex ducere, tirare fuori il meglio. Perché i libri prima li dobbiamo fare e poi li dobbiamo vendere. Prima di dobbiamo fare delle domande: che carta uso e perché? Che font? Che formato? Come si legge un libro? Come si costruisce il prezzo di un libro? A chi mi rivolgo? Come arrivo a quel lettore? Bisogna darsi delle risposte lontane dal “a me piace così”. Spero che questo magico mondo degli editori possa liberarsi dai software che pensano e giustificano per noi, dai numeri che mangiano la qualità. Perché il nostro è un mondo antieconomico, i soldi arrivano solo se tratti i libri e i lettori con cura e rispetto”.

E su questo sono d’accordo: un libro brutto a vedersi, scomodo da leggere rischia di scoraggiare anche il lettore più accanito. E allora è inutile lamentarsi, cari editori!

Altre info:
Scrivere un libro e poi pubblicare

 

Immagine dal web

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