Di martedì.

È l’una passata. C’è il sole, ma l’aria punge la faccia. Tina tira il guinzaglio, mi trascina verso l’aiuola, tuffa il muso dentro un cumulo di foglie secche, sgrufola in giro.
Pausa.
Respiro, sto bene. In giro c’è poca gente, solo qualche altra coppia cane e padrone parecchio più in là. Tina abbaia, anche lei sta bene. Forse è perfino contenta.
Una voce mi saluta. Non la riconosco, ma rispondo buongiorno. Mi affianca un donnino minuto, la pelle di cuoio sciupato, gli occhi come due pozzi, i lineamenti scolpiti con l’accetta. Sudamericana, immagino.
«Mi scusi», dice restando a distanza. «Devo comprare una cosa che ho rotto.» Allunga il cellulare: nella foto c’è un portasapone dozzinale, roba da Leroy Merlin. «C’è un posto qui vicino?» Le parole le tremano in bocca.
È povera e scalcagnata e fuori posto in questo quartiere. Le rispondo con un sorriso e qualche domanda. Deve ricomprare quel coso prima che la signora cui fa le pulizie torni a casa, altrimenti… Sorrido più forte mentre le spiego la strada per raggiungere un magazzino poco lontano; forse lì potrebbe trovare qualcosa.
Io parlo e lei inizia a piangere. In silenzio.
Non è giovane, questa donna. È persa e sola e infelice, e non c’è modo di consolarla. Se non riuscirà a rimediare in tempo, la sua padrona — dice proprio così, la mia padrona — la caccerà.
Cerco di rassicurarla. Vorrei poter fare qualcosa, ma in tasca ho solo le chiavi di casa, i kleenex e i sacchetti per la cacca di Tina.
Lei si asciuga gli occhi e fa qualche passo. Poi si ferma, ripete le indicazioni che le ho dato. Sì, ha capito bene. Non può sbagliare strada. Mi ringrazia, mi saluta, si allontana.
Tina mi fissa.
Pausa.
Io non sto più così bene. E mi vergogno anche un po’.

Di giovedì.

Procedo a zigzag scansando la gente che riempie i corridoi del centro commerciale. C’è chi va contromano, chi si pianta all’improvviso davanti a una vetrina, chi si blocca per ravanare nella borsa, chi si sbraccia parlando al cellulare. Che fastidio. Non vedo l’ora di uscire da qui. Non mi piace girare per negozi e ancor meno fare acquisti in queste gabbie, sempre troppo calde o troppo fredde, secondo stagione, ma al Natale non si sfugge.
E comunque, anche il Natale non mi piace. Io non amo festeggiare neppure i compleanni, figurarsi.

C’è qualcosa, una macchia color panna. È un cane. Un labrador, sembra una statua, pare non respiri. È fermo in adorazione di una donna con in braccio un bambino: un presepe vivente, moderno e involontario. Mi avvicino, ma non troppo. Il bambino è un neonato, al massimo avrà due o tre mesi, la madre sulla trentina. Immagino abbia un buon motivo per aver portato il piccolino nel delirio dello shopping. Vicino a loro c’è una carrozzina, tutti e tre paiono in attesa.
Non sono l’unica a notare la bellezza del quadretto. In tanti osservano la famigliola, si girano e sorridono, vivaddio! Sempre restando a distanza, faccio i complimenti alla donna per il cane e, un attimo in ritardo, per il bambino. È una femminuccia, il cane è suo fratello, non la perde di vista e dal primo giorno che è entrata in casa passa tutto il tempo ad adorarla.
Mi riempio gli occhi, saluto e mi ricordo anche di fare gli auguri: «Buon Natale!» Scivolo nel flusso della folla che scorre, qualcuno si volta, commenta compiaciuto.
Il labrador è sempre immobile, vigile, lo sguardo innamorato. Pronto a tutto.

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Foto di mithun m da Pixabay

 

 

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