Scrivere è “anche” faticoso. Dico anche perché per me è divertente, doloroso, appassionante, misterioso, intrigante, spaesante… e potrei andare avanti all’infinito per tentare di comunicare le sensazioni che mi attraversano quando sto scrivendo una storia. Il fatto che io racconti storie vere, vissute da un altro che me le racconta, mi coinvolge ancora di più perché so che le lacrime, il sangue, il dolore, la delusione e l’incredulità rispetto a un dramma vissuto sono reali, non frutto di finzione. Io mi immedesimo, accolgo la storia con tutto quel che ne consegue. A volte sento il peso della fatica che stempera una giornata di sole in un universo grigio, immersa come sono nella dimensione tragica di qualcun altro. Succede quando abbasso la guardia e, allo stesso tempo, accorcio la distanza che è d’obbligo tenere con la storia che sto scrivendo. È sempre un problema di equilibrio e di misura, quando scrivo un’autobiografia devo stare allerta.  Ci sono momenti in cui entro nella storia come fosse mia e allora ho bisogno di fare altro, distrarmi, tirarmi fuori dalla vita che sto traducendo in un libro e che non mi appartiene. Ecco trovata un’altra definizione del ghost writer: lo scrittore fantasma è colui che traduce la storia di una vita in un romanzo. Nel mio caso, visto che le storie le scelgo con cura, si tratta di vite romanzesche già all’origine.
A proposito del ruolo dello scrittore come traduttore voglio ricordare una citazione di Marcel Proust:  “Il libro essenziale, il solo libro vero, un grande scrittore non deve, nel senso corrente, inventarlo, poiché esiste già in ciascuno di noi, ma tradurlo. Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli di un traduttore”.

E dopo tutto ciò, mi rimetto comunque a scrivere alcune pagine molto tristi della storia con cui mi sto confrontando. È notte fonda, tra un po’ andrò a dormire e sognerò un cielo pieno di libri.

Immagine dal web.

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