Qualche tempo fa ho assistito all’arrivo in Italia di un carico di cani provenienti dalla Spagna: erano quasi tutti galgo, salvati dalle perreras spagnole, canili in cui è difficile riuscire a sopravvivere. Alla fine di un viaggio di duemila chilometri, molti di loro erano attesi da una famiglia adottiva, gli altri destinati allo stallo in attesa di adozione. Il Galgo è il levriero spagnolo, usato dai cacciatori per la caccia alla lepre. Ogni anno, quando finisce la stagione della caccia, sono massacrati a centinaia. I piu fortunati finiscono abbandonati, gli altri impiccati, decapitati, bruciati vivi, impalati o gettati ancora vivi nei pozzi.
Il giorno in cui ho avvicinato questi meravigliosi animali, alcuni feriti, denutriti, tutti impauriti e incerti, ho voluto conoscere le loro terribili storie. I loro occhi parlano, chiedono solo pietà. Dobbiamo dare loro voce perché questo dramma non venga ignorato. Per questo ho cercato di immaginarmi gli ultimi momenti di un galgo, un cane senza nome, simbolo di tutti gli animali vittime della crudeltà e della stupidità degli uomini.

Omaggio al galgo, figlio del vento

Siamo ammassati in poco spazio dentro il cassone del camion insieme a mattoni, sacchi di sabbia, corde, attrezzi e altri materiali. Ci sono anche dei bastoni. A ogni curva sbattiamo contro le sponde e sempre qualcosa cade, rotola, ci colpisce, ci sbrega il mantello. Ansimanti, respiriamo l’aria sporca, pregna dell’odore della paura. Siamo un branco di disperati senza speranza, uniti nel terrore. Sento strisciare le costole di un altro sul mio costato, con il naso sfioro un orecchio, riconosco l’odore di ciascuno dei miei compagni nonostante il sentore rancido del pelo coperto di sporco incrostato, la puzza delle piaghe e il tanfo dolce del sangue dei feriti. Tengo la testa alta verso il cielo grigio. Ogni cosa, ormai, mi lascia indifferente. Una frenata e siamo in ginocchio. Il camion sobbalza, abbandona la strada bianca ed entra nel bosco. Qui il fetore di morte spegne i lamenti. Ora è lo sgomento. Perfino il cuore batte in silenzio.
Sono vissuto male come tutti, qui. Ho passato i miei  giorni chiuso nel ricordo di quando, un tempo, ero un figlio del vento e correvo libero intorno a una grande casa. C’era un bambino, ci divertivamo insieme; mi carezzava, ogni tanto mi maltrattava, per gioco. Quasi ogni giorno mi allungava qualcosa da mangiare e riempiva un secchio d’acqua solo per me. Io ero felice, ma è durato poco.
Adesso ci siamo fermati, le voci degli uomini sono più vicine. La sponda del cassone è aperta, noi ci tiriamo indietro. Un colpo di bastone, una scudisciata e ci precipitiamo giù ancora prima che i galgueros ci incitino, urlando come ossessi. Finiamo in un recinto. Piovono calci sui più lenti, arriva ancora qualche bastonata. Il terreno è umido, fango molle di terra, foglie, rametti e muschio. Intorno ci sono tanti lecci dalla corteccia scura quasi nera, screpolata qui e là. I rami sono grigio verdastri, dai più bassi pendono molte corde, sporche e usurate. Gli uccelli hanno smesso di cantare e risuonano gli ululati. Anche i più lenti, gli stupidi, hanno capito.
Tra gli alberi si intravede  una radura, c’è una buca che trabocca delle carcasse di quelli che ci hanno preceduto. Siamo alla fine dell’inferno, forse da qui riusciremo ad andare in paradiso.
Ci infilano lo strozzo per impedirci di scappare. Uno per uno ci trascinano sotto l’albero che ci spetta, poi una bastonata per tramortirci e ci appendono alla corda. Tengo la testa alta, gli occhi aperti. Voglio vedere. Non tutti se ne vanno in fretta, c’è chi si divincola per un tempo infinito, prima di morire con gli occhi da pazzo e la lingua fuori.
Mi faccio avanti, non ho paura. Io sono un figlio del vento e voglio correre ancora. Mi scosto quando arriva il bastone e invece che la fronte, mi spezza la schiena. Non importa, io sono un figlio del vento e non mi fermeranno.
Il nodo scorsoio aderisce alla mia gola. Muoio in mezzo agli altri, le urla, i guaiti, gli ululati, il piscio, la merda, la puzza, il dolore. Per una vita che ho solo immaginato.
Ho perso il ricordo di cos’è una carezza o forse non l’ho mai avuta.
Chiudo gli occhi. Io sono un figlio del vento, sto correndo su un bel prato e spicco un salto. Ora volo nell’aria, dritto al cielo.

© 2 016 Susanna De Ciechi – Tutti i diritti riservati

Nelle foto alcuni galgo al loro arrivo in Italia, dopo un viaggio di 2000 km, da Malaga in Spagna.

Per saperne di più e per adottare un galgo, info presso Corazon de Galgo e Associazione Z.A.C.

Questo video, Galgos Tribute, realizzato da Andrea Bellina, è stato prodotto per sostenere la causa dei galgos. Si avvisa che la visione non è adatta a tutti. Le immagini fanno chiaramente percepire l’abuso di questi cani da parte dei galgueros e le ferite e la morte che infliggono  a queste meravigliose creature.

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