Scrivere libri è faticoso. Non dico che sia come lavorare in miniera, anche se lo scrittore fantasma passa notti insonni nel chiuso di una stanza, la testa china sulla tastiera illuminata dal riflesso dello schermo del computer e dalla lampada da tavolo, sempre la stessa da oltre dieci anni perché porta bene e non si può cambiare. Non dico neppure che preferirei fare un altro mestiere perché sono innamorata del mio lavoro, ogni tanto però mi serve staccare, avere una via di fuga. Allora. chiudo tutti i file e apro una pagina bianca, inizio a scrivere qualche parola, una frase, una riga, un racconto. Qualche volta la storia si chiude in poche cartelle, altre volte capita che diventi magari una novella. Questa volta stavo ascoltando una sonata di Beethoven, Quasi una fantasia, e intanto riflettevo sulle notizie lanciate dall’ultimo notiziario radiofonico. Di questi tempi c’è poco da stare allegri. Alla fine ho scritto un racconto distopico. Mi auguro che ciò che descrivo non diventi mai realtà.

Quasi una fantasia

Lo schianto smorzato dell’ascensore fece sussultare Giacomo, intento alla lettura. Attraverso lo spioncino vide Jamila che trafficava alla ricerca delle chiavi. Socchiuse la porta: «Entra, dai!» borbottò scuotendo la testa.
La donna non si fece pregare. «Dammi una mano!» disse e richiuse con quattro mandate, poi tolse il berretto e liberò una zazzera di riccioli neri. «Hai fame? Guarda cosa ho comprato.»  Con una falcata raggiunse il divano e sparse sui cuscini una parte della mercanzia: una confezione di parmigiano sottovuoto, il sacchetto del pane, l’involto del prosciutto, cioccolato, mele e pere e anche un piccolo cestino con dell’uva. E una bottiglia di prosecco. Era trionfante. Fece ciondolare la borsa del super, ancora mezza piena. «Posso mettere questa roba nel tuo frigorifero? Mangiamo insieme?»
«Sei uscita!» l’accusò Giacomo, sbalordito e rabbioso.
«Sì. Avevo voglia di prendere aria e di cose buone.» Rovesciò la testa indietro con aria di sfida. «Sono qui tutta intera. Non mi è successo niente.» Adesso andava e veniva portando roba tra il soggiorno e la cucina. «Non ho paura, io. Non sono così nera.» Sghignazzava mentre riponeva i pacchetti al loro posto. «Tu dici sempre che sono del colore del miele di corbezzolo. Abbronzatissimaaa…» Terminò con un gorgheggio e si piazzò davanti a lui rivolgendogli uno sguardo torbido, un misto di angoscia e speranza in cui c’era un invito. Forse era più una preghiera.
«Sei una stupida» mugugnò Giacomo. Intanto si era stravaccato sul divano e aveva iniziato a grattare il bordo della carta del cioccolato; lo faceva con metodo, senza fretta. «Hai preso anche qualcos’altro di dolce? Biscotti? Una torta?»
«Certo» rispose Jamila mentre si accovacciava accanto a lui e gli poggiava la testa nell’incavo del collo. «Per qualche giorno ci daremo alla pazza gioia. Almeno a tavola.» Scoppiò in una risata subito spenta dal rimbombo di una sventagliata di mitra. Restarono muti all’ascolto di un coro di urla e imprecazioni, rumori di gente in fuga, il fischio delle ruote di una moto che sgommava. Poi niente. Lui lanciò la tavoletta di fondente sulla poltrona lì accanto. Le mani gli tremavano, la faccia era grigia come i suoi capelli. «Hai sentito? Sei una scema. Rischiare per la spesa…»
«Te lo ricordi quando uscire era una cosa normale?» Jamila gli chiuse le spalle in un abbraccio. «Andavamo in giro perfino senza un motivo, per prendere un caffé, per andare dal parrucchiere, per guardare le vetrine. Il cinema. Andavamo in bici, ogni tanto. Gli amici venivano a trovarci. Anche da lontano.» Rimasero zitti per un po’. Adesso fuori c’era quel silenzio speciale cui si erano abituati. Nessuno urlava, nessuno sparava, neppure lo scalpiccio di passi affrettati. Una piccola tregua.
«Tutto sta per finire. Vedrai. Succederà qualcosa…» A Giacomo si spezzò la voce.
«No. Allora perché tengono i supermercati riforniti e aperti? Fino a quando durerà? Non hanno intenzione di farci morire tutti. Almeno non di fame.» Rise forte per spezzare l’assenza di rumori.
«Sei solo un’incosciente. Se esci rischi che ti sparino, che ti stuprino, che qualcuno ti prenda per divertirsi a torturarti. Magari ti drogano, ti mettono su un camion e ti sbattono chissà dove.» Aveva uno sguardo disperato.
Jamila gli posò due dita sulle labbra, per calmarlo, poi iniziò a parlargli sottovoce, nell’orecchio. «Eppure io voglio credere che ci sia un’altra vita. Sono giovane, io.»
«Non c’è più tempo. Non c’è più niente» rispose Giacomo e accese una Camel. «Qui possiamo solo finire. O farla finita.»
«Abbiamo avuto un pezzetto di vita buona. Magari…» Lei si scostò di poco, quel tanto che bastava per evitare il contatto con la faccia fredda dell’amico. Lui le carezzò i capelli, li baciò, inspirò il suo odore. Ricordò che nella vita di prima lei se li lavava ogni giorno. «Non ci voglio pensare.» Giacomo si liberò dal suo abbraccio. «C’è anche della carne?»
«Roastbeef!» rispose, fiera. Si alzò di scatto e si diresse in cucina. Davanti al frigorifero aperto domandò: «Vuoi che mangiamo da me? Vieni di là?» Erano vicini di casa, anzi, di pianerottolo. Lui si limitò a scuotere la testa e si sdraiò sul divano, il braccio teso in fuori, a sfiorare il tavolino, la sigaretta che spargeva cenere sulla copertina del libro che stava leggendo: Le memorie di Adriano.
Jamila sorrideva mentre scartocciava il pacchetto della macelleria. Con un dito insanguinato sfiorò il tasto on della radio: una voce piana stava annunciando che erano stati lanciati due razzi armati con bombe all’idrogeno. Cambiò frequenza prima di sapere a chi fossero destinati e si sintonizzò sul canale della classica: Beethoven, la Sonata numero 13 in E flat major, Opera 27 Numero 1.
«Quasi una fantasia» disse Giacomo.
«Che?»
«Niente. Forse è Barenboim» sussurrò a se stesso.
Lei sciacquò un paio di rametti di rosmarino sotto l’acqua corrente.
Ognuno di loro ebbe un déjà-vu. Accadde nello stesso istante.
Non si accorsero di niente.
Nessuna sofferenza.
Così.

Immagine dal web: Gianni Leone, olio su tela, titolo “Un lungo addio

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