Nel mio giardino in montagna c’è una pianta cui sono molto affezionata. Per essere precisi si tratta di un gruppo di betulle gemelle, tre tronchi cresciuti con base comune che mescolano le loro leggiadre chiome in un unico cappello. D’estate ombreggiano la panchina su cui spesso mi accomodo con libri e giornali; i rami più esterni fanno il solletico al terrazzo della casa.  Tanti anni fa, quando visitai il giardino per la prima volta, i tre tronchi colore del ghiaccio sparavano i loro legni disordinati fin sopra il tetto, il fogliame ostruiva i pluviali, l’insieme esprimeva la potenza esagerata della natura, come il resto del verde, in abbandono da molto tempo. In seguito le betulle gemelle sono state potate, le chiome domate; gli interventi di cura ripetuti nel tempo le avevano rese più ariose ed eleganti.

Dal nostro primo incontro è passato molto tempo.
Io sono cambiata dentro e fuori, loro sono restate le stesse, almeno in apparenza. Anzi, a ogni incontro mi sembravano più belle e un po’ le invidiavo.
Siamo invecchiate insieme.

Le ho lasciate sole per qualche settimana. Un tempo breve in cui sono accadute molte cose.
Le ho ritrovate malate, invase da strane escrescenze bianche, quelle di un fungo a mensola, così si dice, il poliporo della betulla (Piptoporus betulinus). Il verdetto del giardiniere non lascia speranza: non c’è niente da fare, l’attacco è massiccio, il danno è irreversibile. La fine è segnata, anche se non è possibile fare previsioni sulla durata della loro agonia.  Eppure la chioma è ancora bella!

A quanto so la vita media delle betulle dovrebbe aggirarsi intorno agli ottanta anni, un tempo breve rispetto a quello su cui possono contare molti altri alberi. Le mie betulle gemelle a occhio e croce potrebbero avere una sessantina di anni, non sono giovani, ma neppure decrepite.
Non sono pronta a lasciarle andare.
Qualche anno fa ho perso un noce maestoso in una notte di pioggia e vento che sembrava la fine del mondo e da parecchio curo un sorbo dell’uccellatore, amputato di un tronco per difenderlo da una forma di cancro. Il cambiamento climatico in montagna non fa sconti, piante e fiori sono disorientati e patiscono. I più vecchi, i meno solidi, si ammalano e muoiono.
Io non dimentico le piante che ho perso, anche loro come le persone e gli animali che ho incontrato e da cui mi sono separata, fanno parte della mia vita e continuano a vivere nei miei ricordi. Quando ci penso, ancora mi mancano.

I funghi a mensola li ricorderò sempre con stupore, ma certo non mi mancheranno. Spero di non avere più a che fare con loro, in futuro, ma non ne sono certa, infatti mi ha sorpreso scoprire che vengono da molto lontano nel tempo.

Vi ricordate dell’Uomo del Similaun? I suoi resti, risalenti a un’epoca compresa tra il 3300 e il 3100 a.C., sono stati rinvenuti il 19 settembre 1991 sulle Alpi Venoste, ai piedi del monte omonimo (ghiacciaio del Similaun, 3.213 m s.l.m.) al confine fra l’Italia e l’Austria. Il suo corpo si è conservato grazie alle particolari condizioni climatiche all’interno del ghiacciaio. Da studi effettuati, è nata l’ipotesi che l’uomo potesse essere originario della zona di Bressanone. In seguito ad analisi sul DNA mitocondriale del corpo mummificato, è risultato che il ceppo genetico dell’uomo di Similaun, presemumibilmente morto tra i 40 e i 50 anni, risulta non più presente a livello mondiale. Oggi i suoi resti, veri e propri reperti archeologici, sono conservati al Museo archeologico dell’Alto Adige di Bolzano. Uno studio del 2011 effettuato dal microbiologo Frank Maixner ha stabilito che il penultimo pasto dell’Uomo del Similaunfu a base di carne di stambecco, cereali e bacche.

Tra le cose che Uomo del Similaun, soprannominato Otzi, portava con sè c’erano due forme sferiche della grandezza di una noce che sono state identificate come il polipero della betulla. La presenza di questo fungo nel corredo di Otzi è stata giustificata in vari modi: si suppone che, in piccole dosi, venisse usato per combattere una parassitosi intestinale di cui, secondo le analisi, l’uomo dei ghiacci era affetto. A dosi diverse, il potere del fungo può essere letale, in quanto è velenoso. Oppure avrebbe potuto avere una valenza magico-spirituale. Le possibili spiegazioni sono diverse, le tesi affascinanti, ne trovate traccia qui dove tra l’altro si dice che “… il poliporo della betulla per il quale, a parte il caso riferito all’Uomo del Similaun non sono noti ritrovamenti archeologici, o comunque indicazioni sul possibile uso in tempi preistorici, è una specie commestibile, per lo meno da giovane, ed è impiegata come tale in Nord America, Asia ed Europa. I Kamchadal della Siberia lo usavano come cibo, consumandolo gelato dopo averlo frantumato. Nella medicina popolare russa, era un rimedio contro il cancro, mentre sembra che il suo thè combatta la fatica, stimoli il sistema immunitario e abbia effetto calmante. Gli abitanti di una zona del Surrey, in Gran Bretagna, lo tagliavano in piccole strisce per poi usarlo come emostatico e le ceneri erano sfruttate in qualità di antisettico. L’uso come esca per il fuoco non sembra che fosse molto diffuso. Una particolare applicazione era quella degli apiculturisti inglesi, che anestetizzavano le api bruciando questo poliporo”.

Io so solo che il poliporo, il maledetto fungo, sta uccidendo le mie betulle gemelle.

 

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