Da alcune settimane nel mondo letterario fioriscono le discussioni sul movimento degli Imperdonabili. Si tratta di un gruppo di letterati che dice di proporre un modo nuovo e diverso di scrivere per rinnovare il patto con il lettore e al contempo “rompere” il monopolio dell’attuale produzione artistica e letteraria, appannaggio quasi esclusivo di una precisa classe sociale organizzata perlopiù nella solita compagnia di giro. Tra coloro che ne fanno parte cito Veronica Tomassini, scrittrice siciliana che ha stilato un decalogo per “alzare il livello della produzione letteraria” e l’editore di Transeuropa Giulio Milani, che pubblica alcuni tra gli autori che aderiscono al movimento.

Riguardo al Decalogo letterario, parecchi dei punti in esso indicati esprimono delle ovvietà magari utili per degli aspiranti scrittori. Tuttavia non mi piace il modo in cui è scritto; il linguaggio pare fatto apposta per tenere fuori il lettore medio, o almeno per creargli fastidio, e questo è poco rispettoso.

Avevo inteso che questo movimento volesse promuovere un modo di “scrivere per tutti”. Dopo avere letto il manifesto mi domando: chi è il lettore cui si rivolgono Gli Imperdonabili?

Per me che scrivo per mestiere è imperdonabile, perfino arrogante, utilizzare una scrittura inutilmente complicata. Per quanto so fare mi sforzo di attenermi a un’ idea cui sono molto affezionata: cerco di scrivere in modo semplice, ed è tutt’altro che facile, affinché anche un lettore occasionale, uno di quelli che legge un solo libro nella vita, e ne ho conosciuti, possa sperare di comprendere la storia che gli racconto.

Il mio non vuole essere un giudizio sul movimento degli Imperdonabili. Non ho letto alcun libro degli autori che oggi appartengono al gruppo e mi riprometto di rimediare al più presto perché la loro iniziativa mi ha incuriosito, anche se al momento non mi ha convinto. Forse quando avrò conosciuto la loro scrittura mi sarà chiaro come lavorano “per testimoniare la visione del mondo di chi lavora e si sbatte ogni giorno, di chi è padre e madre, di chi è emigrato all’estero, di chi ha un’esperienza diretta del mondo in cui oggi viviamo“.

Il Decalogo letterario degli Imperdonabili

1. La scomparsa dell’autore: l’elemento autobiografico è insito in ogni opera, ma l’uso che se ne fa deve essere finalizzato alla creazione della vicenda romanzesca. Occorre dunque abdicare al narratore onnisciente, questa divinità in rovina, e al suo «sovranismo psichico»: questo non significa rinunciare alla terza persona, solo, verrà impiegata in forma “immersa”, l’autore sceglie quale personaggio svolge il ruolo di vice-narratore della vicenda o del capitolo, mentre il resto dei personaggi è misterioso come la realtà umana.

2. Una moratoria sullo stilismo: l’autore deve scomparire dietro il vice-narratore/personaggio prevalente e ricomparire nel controllo sintattico, temporale e lessicale della prospettiva, poiché in questo movimento c’è il prestigio del gioco illusionistico. Lingua, trama e struttura non devono attirare troppo l’attenzione su di sé, col rischio di diventare protagoniste del racconto a scapito dello spettro biografico e dell’autenticità delle relazioni. La lingua, con questo, non deve essere serva della narrazione: bisogna sottrarla al logorio dell’uso comune, alla banalizzazione, come all’omologazione della pratica editoriale. Ne consegue la rarefazione degli aggettivi generici, che oggettivizzano la prospettiva e contraggono gli aspetti pittorici invece di dispiegarli, e dei nessi logico-causali, che danno troppe spiegazioni e non lasciano il lettore libero di effettuare la sua esplorazione del testo.

3. Il superamento del vincolo di struttura narrativa a nastro (es. descrizione/dialogo/descrizione, freccia del tempo lineare, ecc.), un modello legato anche al vecchio mezzo di produzione del testo, la macchina da scrivere.

4. La morte dello stereotipo: i personaggi dei nostri romanzi devono essere difficili da interpretare, così come lo sono gli esseri umani. Eliminazione dei concetti di bene e di male applicati come funzioni ai personaggi. Non esiste il “classico bullo”, il “classico dongiovanni”, “il classico stronzo”, specie quando si affronta la narrazione di genere (per superarla). La letteratura deve sempre avere rispetto delle sfaccettature dell’animo umano.

5. Il superamento dell’ideologia della verosimiglianza: la letteratura non può essere semplice rappresentazione di una realtà data per oggettiva. Compito dello scrittore dev’essere quello di aprire varchi che permettano al lettore di apprezzare il non-significato dell’esistenza, per esempio attraverso l’impiego del surreale, del paradosso, dell’impossibile.

6. Il superamento del modello cinematografico: il cinema ha delle limitazioni che la letteratura non ha. Per quanto voglia essere ambivalente, non lo sarà mai fino in fondo: una voce avrà sempre un timbro, un volto una forma, così come le tonalità. La cabina di regia dello scrittore non ha nessuno di questi limiti: quando scriviamo, siamo liberi di mostrare al lettore solo ciò che vogliamo, sfruttando l’ellissi, l’ambivalenza, la polisemia e il non detto. Ne consegue la necessità di guarire dall’«ambiguofobia», intesa come compulsione a spiegare, interpretare in modo univoco la scena e i personaggi sulla base di una prospettiva pedagogico-didascalica o funzionalizzante: se il personaggio si prende tutto lo spazio di interpretazione, che campo d’indagine resta al lettore?

7. Cambiare il modello di costruzione dei dialoghi: bisogna abolire l’attribuzione di battuta con il disse e il rispose (o simili) o con la «batteria dei disse» minimalista: il primo è un automatismo che appartiene al regime della favola – in quanto prevede un ascoltatore incapace di leggere –, il secondo una soluzione ormai vecchia di quarant’anni. Sostituirlo con la comunicazione non verbale dei personaggi, che è il nostro “actor’s studio”. Eliminare i dialoghi a nastro, disincarnati e senza un contesto, eccetto che nel “botta e risposta” del litigio, della resa dei conti o del terzo grado. Evitare lo «scambio appropriato», il meno frequente nella comunicazione umana, che invece è manipolatoria per statuto: sostituirlo con lo scambio incrociato o con lo scambio a trappola, perché emergano anche le relazioni tra i personaggi oltre al contenuto dello scambio.

8. Guarire dalla “paragonite”, intesa come malattia esantematica del letterario: in particolare, si raccomanda l’abolizione delle similitudini legate al regno animale che appartengono al regime della favola e alle sue esigenze pedagogico/didascaliche. I paragoni dovrebbero essere impiegati con misura e solo se coerenti alla cultura e al linguaggio del personaggio incaricato di raccontare la vicenda o per formularne il grado di attendibilità.

9. La rarefazione dei gerundi subordinati e appositivi e dei participi passati con valore di subordinate avverbiali: sono il tipico corredo di una scrittura sciatta, usurata, schematica e ripetitiva, da traduzione dal latino o da verbale.

10. Riscoprire lo stile indiretto libero al posto dell’affabulazione in stile “Coscienza di Zeno”. Quando si parla di affabulazione e stilismo non si può non fare riferimento alla loro origine comune: il discorso indiretto libero, ossia «uno stile che fa echeggiare fin nei pensieri più intimi il linguaggio del sociale». Dalla Austen a Flaubert, da Dostoevskij a Joyce, non c’è tecnica letteraria che abbia avuto maggior fortuna e plasticità evolutiva. Ma se lo stile indiretto libero, alle origini, era costituito dalla formula «emozioni, più distanza narrativa», oggi la partecipazione emotiva prevale sul racconto. Ne scaturisce una cascata di testi affabulatori, che presentano soprattutto il “pensierare” del personaggio principale; dove la narrazione è per così dire incapsulata nella testa del vice-narratore: è cerebrale, asfissiante, didascalica, senza un mondo o un corpo in cui si riesca a incarnare. Il lettore intelligente ha una legittima aspirazione a immedesimarsi nella scena e a viverla come fosse parte della sua esperienza, popolandola col suo inconscio biografico. Invece fatica a comprendere cosa sia davvero essenziale in questo avvitamento del linguaggio su sé stesso, in questa isteria metaforizzante. Ne sgorga un nastro discorsivo in cui “tutto è uguale a tutto”, che è l’opposto della altalena emotiva dove invece vorrebbe salire il lettore (che ha pagato per esserci).

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Foto da Pixabay

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