Che cosa succede alle pagine che in fase di revisione di un testo vengono scartate? Quegli stralci di storia sono destinati a morire oppure prima o poi avranno diritto a una seconda occasione? Dipende. Tra i file del mio computer sono celati molti orrori e anche qualcosa di buono. Lascio ai lettori un racconto salvato dall’oblio e la sua storia.

Scrivere un libro è un viaggio, un’avventura che non so mai dove porterà e quali sorprese riserverà sia a me, che sulla carta trasformo una storia in un romanzo, sia al mio narratore cui la storia appartiene perché magari l’ha vissuta e che la condivide con me attraverso una lunga narrazione orale. La coda di tutto ciò che accompagna la scrittura di un libro non si esaurisce mai, infatti i personaggi che muovono la narrazione sono sempre pronti a fare capolino tra le pagine, magari a trasferirsi in altre storie, così come certi tagli, o gli appunti di una conversazione mescolati a sentimenti ed emozioni sopite possono nascondersi a  lungo dietro una pila di manoscritti sullo scaffale più incasinato di una delle mie librerie, oppure sprofondare in una cartella dimenticata nel computer, nella forma di un file archiviato nel posto sbagliato. È certo che prima o poi torneranno a palesarsi.

Per esempio, di recente mi è arrivata una richiesta: “Ricordi che un paio di anni fa mi avevi fatto leggere alcune pagine dedicate alla nascita del mio bambino? Non le trovo più, ho voglia di rileggerle e magari di conservarle per lui”. Avevo del tutto dimenticato quelle poche cartelle, ma certo non sono sparite. Ricordo di averle scritte con un senso di rimpianto perché qualcosa di bello e atteso a lungo come una nascita, era avvenuto sotto l’ombra malevola della pandemia, in pieno lockdown. Era andato tutto bene, ma ancora a distanza di qualche settimana dall’evento, non riuscivo a scrollarmi di dosso la sensazione che a questo bambino fosse stato sottratto qualcosa.

Ancora prima di affacciarsi a questo mondo, il nascituro era entrato nella storia del libro in corso di scrittura con un accenno al suo concepimento, la sua immagine ecografica in forma di fagiolo, una promessa enorme. Quando nacque la scrittura del libro era compiuta, il manoscritto riposava in un cassetto, la pandemia dilagava. Una sera di malinconia ho sentito il bisogno di raccontare in quali condizioni questo bimbo è uscito dalle pagine di un libro e dalla pancia della mamma per iniziare il suo cammino in questo mondo alla rovescia.

Ora, recuperato il file dimenticato, mi fa piacere condividere questo racconto con chi si trova a passare dal mio sito e in particolare con i lettori di “Qualcosa nascosto”. Soprattutto loro ne comprenderanno il significato speciale.

Dedicato a L.

Storia di un fagiolo

Scusate, non sarei dovuto entrare in queste pagine, infatti non c’ero ancora quando al libro fu messa la parola Fine, allora ero solo un fagiolo. In seguito sono successe tante di quelle cose! Mi pare giusto farvi sapere come me la sono cavata.

All’inizio, intendo alla fine della storia, ero un fagiolo molto concentrato su me stesso, sul mio processo di sviluppo, di formazione. Stavo incartocciato in una morbida melassa dentro la pancia della mamma; talvolta origliavo l’eco che mi rimandava quel che accadeva negli immediati dintorni del mio confine. Dalla mia tana percepivo solo buone sensazioni. Tutto era tranquillo, rasserenante: suoni ovattati, bisbigli, musica, amore, coccole, lo squittire di una bambina che chiedeva di me in continuazione, mi chiamava fratellino, cantilenava ninnenanne senza tregua. C’erano anche le musate lievi di un cane attutite dalle mani di mio padre che difendevano la culla in pancia di mamma.

Intanto crescevo, mi muovevo.
Esploravo la curva del pancione e ruotavo piano piano.
Stavo bene, poi cominciai a sentirmi stretto.
Sapevo che non sarei restato lì per sempre.
Nel frattempo me la godevo.
Sì.

La mamma mi chiudeva ogni momento in un abbraccio speciale, con le mani impegnate a sostenere il pancione e la punta delle dita intrecciate che tastavano il bordo rotondo della pelle cercando i contorni del mio corpicino: un gomito, un ginocchio o un calcagno che magari sporgeva là dove avevo sferrato quel calcio che l’aveva svegliata in piena notte. E lei sorrideva, sempre, anche quando era stanca, la schiena dolente, sfinita dal mio peso.

Un giorno mi svegliai dal sonnellino e intuii che là fuori qualcosa era cambiato. C’era uno sfarfallio di agitazione che non c’entrava con l’attesa “del nostro bambino”. Non era gioioso, sfumava nel grigio della paura, un’angoscia frenetica che si propagava fin dentro la pancia al punto che mamma aveva di nuovo la nausea, ma diversa da quella che provava quando ero un fagiolo.

Mia madre stentava ad accettare perfino l’idea che una minaccia tanto enorme potesse essere diventata reale all’improvviso.  Pandemia, diceva, è una parola non prevista nel vocabolario di una donna in attesa.

Da lì in poi montò la confusione, e poi venne l’inquietudine. I miei genitori fingevano di non essere preoccupati, fingevano leggerezza, fingevano una misurata attenzione per il problema mentre i pensieri che avevano in testa a volte spazzavano via le istanze di qualsiasi ragione. Il controllo, fingevano il controllo che stava loro sfuggendo a mano a mano che la conta dei morti aumentava. Abbassavano la voce quando ne parlavano, un mormorio, ma io sentivo.

I morti erano vicini, il pane quotidiano.

L’onda saliva e mamma e papà iniziarono a organizzare il mio arrivo in emergenza. Avevano l’ossessione della sicurezza. Io non mi preoccupavo di come sarebbe andata, mi avevano concepito ottimista e creativo, era difficile che qualcosa potesse darmi pensiero.

Mi misi quieto, in attesa, per non dare a mamma l’impressione che potesse esserci qualche altro problema e poi, al momento giusto, giusto per me per uscire, tutto andò in modo diverso da come loro l’avevano immaginato.

Bussai di notte, appena iniziai a farmi sentire il tempo divenne concitato: Come ti senti, vestiti, vieni che ti aiuto, ho mandato un WhatsApp ai miei e ai tuoi, la bambina…, dice che dorme tranquilla, meno male che…, sì, ho preso la borsa, le chiavi, hai chiuso bene, aspetta voglio guardare la casa, quando torneremo ci sarà lui, anche adesso, però niente sarà più come prima, sarà meglio, meglio… Deve andare tutto bene. Sì, non avere paura. Sorridi! No, non ho paura, sorrido. Non ho paura, non ho paura, non ho paura…
Era tutto un sussurrare tra un singulto di doglia e lo scombussolo di un tombino fuori posto mentre la macchina volava per le strade nere di solitudine.

A ripensarci adesso, mentre faccio le bolle tentando di parlare, riesco ancora a rivivere quel momento.

Il terrore dell’ospedale, un lazzaretto pensava papà mentre cercava di sorridere a mamma e le diceva comunque abbiamo le mascherine e gli si strizzava il cuore perché erano lì per incontrarmi e non c’era anima viva pronta a consegnare un sorriso in dotazione con la sedia a rotelle.
Nessuno parlava più, neppure bisbigliava.
La mamma premeva le mani come artigli alla base della mia culla nel pancione. Era muto anche papà. L’ospedale era stravolto, c’era stata una rivoluzione da quando mia madre aveva fatto l’ultimo controllo. Sparite le sale d’attesa con le sedie su cui consumare le ore, adesso c’erano tante file di barelle e ancor più persone in piedi, incollate ai muri, gli occhi dilatati sopra le mascherine, o le sciarpe d’emergenza.

Un’idea di sporco virale, il timore di infettarsi lì, nell’occhio del ciclone.
Nessuna vera protezione.
Tutto era lercio e corrotto.

In ascensore trattenemmo il fiato. Mamma era concentrata su di me, papà fissava la persona che ci accompagnava: era chiusa dentro uno scafandro e non diceva niente. Solo alla fine, prima di entrare in reparto si lasciò andare: In bocca al lupo! Mia moglie ha partorito qui pochi mesi fa, quando era tutto diverso. Io che ci lavoro, quel giorno per l’emozione ho sbagliato piano. Chissà, forse stava sorridendo.

Il reparto era in bianco e nero senza neppure un palloncino, un festone, un qualsiasi colore. Mio padre sarebbe voluto entrare. Stringeva le mani di mamma per poi lasciarle andare sfilacciando il senso del contatto.
Lo ricordo, lo sento ancora adesso. Una memoria intrauterina.
E mamma, che gran coraggio! Si immerse nell’acqua e io nacqui scivolando fuori con la grazia di una medusa.
Avrei voluto restare attaccato a lei, sott’acqua stavo bene. Rimasi in attesa, trattenendo il fiato, prima di entrare in questo mondo asciutto, poi mi decisi e, non avevo scelta, iniziai a respirare.

Fuori era diverso da come l’avevo immaginato però loro, i miei genitori, erano lì per me. Una manciata di ore e lasciammo l’ospedale, mamma mi teneva troppo stretto e il suo cuore batteva troppo forte mentre attraversavamo i corridoi e gli atri per tornare a casa.

I vivi, i malati, i morti, gli altri…

Ero entrato con il buio e uscivo con il sole. Alle spalle lasciavo la luce artificiale, la gente spaventata, lo sporco della pandemia.
Appena fuori l’ospedale c’era un pallone. Era rosso, viscido, gommoso, con tante piccole ventose, ruzzolava un passo avanti a noi e mentre procedeva, s’ingrossava. Respiravo l’odore della paura contro il petto di mamma.
Tornare indietro, nel pancione? Forse, se ci fosse stata una scelta da fare. Quando ero là se mi concentravo potevo comandare cose e persone, ora stavo perdendo il mio potere. La memoria svanisce, scorre su un piano inclinato e tuttavia… Papà ebbe uno scatto di rabbia, assestò un calcio nell’aria, poi si ricompose. Sento ancora il rumore di quell’assist!
Plop, plop, plop, era il presente che rotolava avanti, fino a dove sono adesso e molto oltre.

Noi abbiamo un gran talento per la sopravvivenza e del resto è così bello qui fuori! Il tempo migliore per cominciare una vita nuova.

Proprietà letteraria riservata – vietata la riproduzione senza l’espresso consenso dell’autore.
© 2022 – Susanna De Ciechi.

Immagine d’apertura: Scultura di carta di Bethany Bickley

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