Ho acceso il condizionatore, non resistevo. La vecchia cagna solleva il testone dal parquet e mi fissa riconoscente; la lingua penzolante gocciola sul legno, il respiro si fa meno affannoso. Restiamo in silenzio, a confrontare i nostri anni. Corriamo su tempi diversi alla stessa meta. Lei vincerà, arriverà prima.
«Aspettami» sussurro con il magone. Non risponde. Il costato s’alza e s’abbassa in un respiro regolare modulato sul ronzio del Daikin.
«Ehilà, come va?» Tormenta si affaccia allo schermo, noncurante dell’umido di lacrime trattenute che nascondo in una smorfia.
«Tutto bene» dico asciutta.
«Adesso ti spiego perché sono venuto a Nizza.» Io sto zitta, non chiedo niente. «Non eri curiosa di sapere perché sono partito in fretta e furia?» recita come un bambino ansioso di raccontare come gli è andata a scuola. Le parole rotolano dalla bocca senza passare dalla testa e neppure dal cuore. Mi rilasso contro lo schienale della poltrona, fisso lo schermo senza vederlo. Mi guardo dentro, penso al mio cane, a me.
«Qualche giorno fa ero al solito bar, il Roxy. Stavo seduto fuori a un tavolino laterale per poter fumare in santa pace. Leggevo il giornale. Più in là c’era un gruppo di ragazzini. Uno di loro era Jacopo» fa una pausa a effetto.
Resto in silenzio, lui aspetta. Dopo un po’ chiedo: «Il nome mi dovrebbe dire qualcosa?» Sono distratta. Stasera vorrei stare in muta conversazione con la mia cagna.
«Te ne ho parlato qualche volta. Jacopo è il figlio del mio meccanico. Brava gente, ma il ragazzo ha preso una piega strana. Insomma, ’sto gruppetto di maschi era lì che cazzeggiava quando ho captato un discorso…» cerca l’ennesima sigaretta, poi l’accendino. Ci mette una vita, intanto il tempo scivola via dentro il caldo mitigato dal condizionatore. Io mi limito a guardarlo attraverso lo schermo. È un po’ a disagio, forse mi sente lontana.
«Insomma, stavano parlando di trafficare coca. Ti rendi conto? Ragazzini viziati cui non manca niente eppure nella pancia gli sale quella voglia… Lo capisco anche troppo bene.» La voce è più bassa e anche lo sguardo. Sta ricordando. Adesso ha di nuovo tutta la mia attenzione.
«Lo so» dico. «Hanno tutto e sono lo stesso alla ricerca di non si sa cosa.»
«Ho sentito che Jacopo doveva incontrare qualcuno a Nizza. Mi sono mosso in fretta.»
«L’hai seguito?»
«Sono partito insieme a lui. Ogni tanto l’ho anche superato in autostrada, poi mi sono fatto riprendere. La mia moto è più potente della sua.»
«Ah, capisco.»
«Sapevo che aveva appuntamento al porto.» Spegne la sigaretta, adesso è rilassato. «I ragazzi parlano sempre a voce troppo alta, sono degli sco-stu-ma-ti.» Ghigna. «Quel giorno al bar avevo fatto in tempo a scrivere sul bordo del giornale il nome della barca che Jacopo doveva cercare: la Violante. Già il nome è da sfigati.»
«Va bene, lascia perdere i dettagli. Cos’è successo?»
«Scusa, Susanna. Mi squilla l’altro cellulare, una cosa di lavoro. Ti richiamo.»
«No. Devo uscire.»
«Ah, va bene.» Mi sembra deluso. È una questione di misura, anzi, di dose. Me l’ha insegnato lui.

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