Oltre che una cara amica e un poeta di chiara fama, Luisa Pianzola è stata una delle prime persone a leggere il manoscritto de La regola dell’eccesso, il romanzo che ho scritto come ghost writer, liberamento ispirato alla vita di Renato Tormenta, il mio co-autore. Nonostante la confidenza, ero preoccupata del suo giudizio e questo, per chi mi conosce bene, è un fatto inusuale. Quello che temevo non era la valutazione imparziale di Luisa, persona sensibile e colta, ma quello di Luisa “poeta” poiché le sue poesie, tra le poche che leggo con gusto, mi intimidiscono tanto sono implacabili, a volte taglienti, nel tratteggiare contesti ed emozioni che tutti abbiamo occasione di attraversare nel quotidiano, ma ci rifiutiamo di riconoscere. Di sicuro affidare a lei la lettura del romanzo mio e di Tormenta è stato un azzardo, abbiamo rischiato di uscirne scorticati. È finita che Luisa ci ha regalato un postfazione bellissima, per noi un motivo di vanto, in cui ha colto lo spirito della storia, e del suo protagonista, in modo perfetto. Di recente ha pubblicato una nuova raccolta di poesie, Una specie di abisso portatile, e di nuovo sono stata catturata dal suo modo di legare parole e sentimenti, luci e pause, colori intensi e vuoti paurosi. Mi rimane addosso quella sensazione di incompiutezza che talvolta provo, scrivendo in prosa, nei confronti di chi fa poesia. E allora provo a interrogare Luisa sul suo essere “poeta” in modo così speciale.

Una specie di abisso portatileCosa significa essere poeta, qual è il percorso che ti ha portato a scrivere poesia?

Scrivo poesia da sempre (la mia prima passione è stata il disegno, poi la parola ha preso il sopravvento) e pubblico raccolte poetiche dai primi anni ’90. Poiché sono anche giornalista e copywriter, si può dire che si sia ormai consolidato, nel mio modo di approcciarmi alla scrittura, un doppio binario creativo: uno prosastico, finalizzato a un obiettivo, più direttamente collegato alla realtà, e uno sotterraneo, carsico, che percorre traiettorie più profonde, meno sondabili. Scrivere poesia è, tra le mie attività, quella che più mi sta a cuore, ma non potrei mai farne un mestiere perché (a parte l’ovvio aspetto economico), per salvaguardarne la genesi e la qualità, ho bisogno che la poesia sia totalmente libera di lavorare negli strati più sepolti della coscienza, per emergere quando pare a lei. Quando succede, scrivo. E dimentico, lascio sedimentare. Giorni, settimane. Poi, la gioia sottile di trovare un senso, limare, dare nuovo significato e dignità alle parole. E intanto, lentamente, costruire un corpus, un organismo che cresce e a un certo punto chiede di staccarsi (il libro).

Quindi scrivere un libro di poesia è una specie di operazione ad accumulo?

Almeno per quanto mi riguarda, non esiste “scrivere un libro di poesia”. Non funziona così. Non è come per un romanzo, di cui immagino che, partendo da un’idea, si costruisca preventivamente l’ossatura. L’architettura di un’opera di poesia, nella maggior parte dei casi, si delinea a posteriori, assemblando il materiale (e anche questa fase diventa un momento fortemente creativo). Mi piace rendere i testi il più possibile omogenei, riducendo o eliminando i titoli, trovando una luce e una forma comuni. Perché la poesia è una lingua, un tessuto, una temperatura. L’unico elemento che può essere considerato progettuale, nel mio lavoro, credo sia il fatto che tra un libro e l’altro, cioè nel produrre il materiale che confluirà nel libro successivo, sento di dispormi in una particolare “modalità”. Ad esempio, nella penultima pubblicazione, Il ragazzo donna, ero in modalità “prosa” (ho scelto di eliminare drasticamente gli a capo), mentre nell’ultimo libro, Una specie di abisso portatile (entrambi editi da La Vita Felice), ero orientata verso il recupero di una maggiore classicità compositiva.

Tu che scrivi poesia, come interpreti la lettura di opere di narrativa?

Ho sempre considerato suggestiva l’idea di Sartre che, nel saggio Che cos’è la letteratura?, assimila il poeta all’artista visivo (per il suo approccio artigianale, oltre che concettuale), più che al letterato tout court. Non sarà un caso, ad esempio, che non sia mai stata una divoratrice di romanzi, ma sia sempre stata attratta da altre forme di scrittura, come quella biografica, che attinge direttamente dalla realtà. E non è un caso, dunque, che abbia molto apprezzato un libro come La regola dell’eccesso, perché ci ho sentito dentro, fin dalle prime righe, la vita vera, quella più profonda, più urgente. Tanto da scriverne quella che poi è diventata, con mio grande piacere, la postfazione. Qui il link RegolaEccesso_Postfazione Luisa Pianzola

                                                                                   

Nota biografica

Luisa Pianzola (Tortona 1960) è poeta e giornalista, laureata in storia dell’arte contemporanea. Libri di poesia: Una specie di abisso portatile (La Vita Felice 2015), Il ragazzo donna (La Vita Felice 2012), Salva la notte (La Vita Felice 2010), La scena era questa (LietoColle 2006), Corpo di G. (LietoColle 2003), Sul Caramba (Sapiens 1992). Plaquettes: In un paese straniero a volte ospitale (Fiori di Torchio 2013), Miniserie (Da>verso coincidenze 2013). La sua poesia, uscita su riviste, saggi, antologie, siti web, è stata tradotta in inglese e francese e ha ricevuto riconoscimenti in numerosi premi internazionali. Su di lei hanno scritto, tra gli altri, Mario Santagostini, Maurizio Cucchi, Giampiero Neri, Stefano Raimondi, Piera Mattei. Ha collaborato con la rivista di poesia “La Mosca di Milano” e cura per LietoColle la collana Serre di Poesia. Sito internet www.luisapianzola.it.

 

 

 

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