I suoni della strada filtravano appena attraverso il lucernario chiuso: lo sbattere di una portiera, una risata, una mamma che sgrida il suo bambino e l’ultimo abbaio di un cane prigioniero su un balcone. Lui, invece, rinchiuso nella soffitta, non gridava, non si lamentava. Aspettava che arrivasse la fine.
Chissà quando l’avrebbero trovato! Forse sarebbero passati anni, del resto non ricordava neppure da quanti giorni si trovasse lì. Una notte c’era stato un temporale violentissimo e all’alba il suo letto era fradicio di pioggia. Dal lucernario aperto della soffitta era entrato un torrente e l’assito sgangherato del pavimento aveva fatto filtrare l’acqua fin giù, nella sua stanza. Recuperata la chiave del solaio, aveva fatto la rampa di scale con un secchio in mano, per sgottare, come si fa in barca quando c’è mare. Qualcuno aveva lasciato la porta accostata; lui era entrato, poi il battente si era richiuso con uno scatto. Reggendo la chiave e il secchio, aveva armeggiato per chiudere il lucernario. Era incastrato, si era abbassato con uno schianto secco e, mentre lui ritirava la mano, la chiave era scivolata giù dal tetto. Aveva tentato per ore di riaprire la porta cui mancava la maniglia, poi aveva mollato. Che motivo aveva per uscire, tornare a una vita senza scopo!
I primi giorni aveva bevuto la pioggia raccolta nel secchio.
Non aveva mai gridato né chiesto aiuto.
L’incidente gli era sembrato un segno del destino.
Aveva con sé poche cose a fargli compagnia, carabattole trovate frugando nelle scatole dei ricordi che qualcun altro aveva abbandonato, oggetti che per coincidenza raccontavano la parabola della sua vita. Il modellino di cartone di un aeroplano gli ricordava il suo volo disgraziato, quello da cui era resuscitato tanti anni prima. Cadere con l’aereo, e sopravvivere, era stato lo scarto imprevisto che l’aveva portato fuori strada?  Appesa a una trave del soffitto c’era una corda da marinaio. Era mezza logora, ma sarebbe andata bene se avesse deciso di dare un’accelerata. Spossato, si rifugiò in quel sopore che lo tratteneva raggomitolato in un angolo, ad aspettare. Rimase immobile per qualche minuto o forse un’ora, poi lo attraversò un pensiero: avrebbe potuto mangiare la corda, l’avrebbe ciucciata per renderla morbida, poi avrebbe strappato la fibra a piccoli morsi, dopo averla masticata lentamente l’avrebbe mandata giù per la gola, fino nello stomaco. La sazietà gli avrebbe dato l’energia che…
Niente.
Una rabbia feroce gli fece pulsare le tempie. Non aveva una casa vera dove andare. Nessun amore e nessun amico. Distorse la faccia in una smorfia che gli fece dolere le labbra screpolate. Allungò la mano rugosa come il cuoio vecchio, per pescare dal pavimento l’orologio, fermo sull’una. In quel caldo tropicale la cassa era bollente. A fatica, con il piede avvicinò un paio di occhialoni da aviatore, uno strano oggetto da collezione.
Qui non aveva più niente da fare, un uomo inutile perfino per se stesso.
L’immagine di un teschio con indosso gli occhiali da volo si formò nella sua testa. Adesso stava bene, non aveva fame né sete. Immerso nel lerciume, non riusciva quasi più a muoversi dentro gli abiti enormi, trasformati in cartone. Era stato un uomo robusto, se lo ricordava. Un pensiero striminzito gli rammentò che aveva avuto molte donne, nessuna per davvero.
Era estate, il tempo delle vacanze.
Nel vecchio solaio bollente, uno sciame di polvere strisciava nell’aria, più in là, appena sotto il lucernario.
Chiuse gli occhi per l’ultima attesa.

© 2016 Susanna De Ciechi – Tutti i diritti riservati all’Autore

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