Chi è l’autore, oggi? Cosa fa?  La scrittura è ancora il suo primo talento? Non sempre, non per tutti gli autori. Avevo già scritto su questo tema in un altro post in cui mettevo in relazione la figura dell’aspirante autore con quella del ghostwriter e dell’editor, indispensabili per supportare chi voglia fare lo scrittore senza possedere il mestiere di scrivere. Il recente articolo di Gianluigi Simonetti uscito su Il Sole24Ore_Scrittori più social che letterati, mi dà ragione, almeno in parte. Dice Simonetti: “L’industria culturale si mette più volentieri all’ascolto di un certo tipo di storie e di un certo tipo di autore, facili da riassumere e da comunicare. La storia, dicevamo, è bene che sia forte: un conflitto, un dolore, una malattia, un’esperienza a qualche titolo eccezionale e ricca di spirito del tempo. L’autore è bene che venga da fuori, cioè dall’esterno del campo letterario. Che abbia talento e cultura multitasking; che sia capace di esibirsi su palchi e immaginari diversi. Una vocazione solo letteraria ormai è troppo e insieme troppo poco”. Dunque la direzione è segnata, questo è un fatto. Del resto viviamo qui e ora, in un mondo in cui sei hai un talento devi anche saperlo vendere, altrimenti nessuno lo scoprirà e tu morirai di fame. Tuttavia siamo al punto in cui alcuni scrittori, inventati dall’industria editoriale, devono avere più talento per il marketing che per la scrittura. Non mi interessa commentare che ciò sia un bene o un male, trovo più costruttivo ipotizzare gli sviluppi di questo indirizzo, i cambiamenti che porterà. L’articolo dice molto altro e codifica le caratteristiche dei nuovi autori: “Nella fase che stiamo descrivendo, un’attenzione particolare sembra riservata a due tipologie di autore, entrambe di solito legate al racconto in prima persona. La prima è quella del giovane scrittore (se possibile esordiente, o seminuovo): perché rappresenta un investimento a basso costo, perché parte da zero e di solito è malleabile e ricettivo. Molto meglio, come detto, se non è, o non sembra, soltanto un letterato; se possiede talenti non solo e non tanto culturali (per esempio fa lavori strani, pratica sport estremi, frequenta teatri di guerra, gestisce un blog); se si muove fuori dalle biblioteche o dai salotti (perché vive nei boschi, o sui mari, o nei ghetti, o nelle rete sociali); se è in grado di performare, e performarsi, oltre la scrittura (…) La seconda tipologia rientra nel novero delle cosiddette scritture «di categoria», brand narrativi costruiti proprio intorno alla specifica identità sociale di chi scrive. I generi innescati possono variare – dall’autobiografia all’intervista, dalla raccolta di barzellette al romanzo vero e proprio; l’importante è che a essere coinvolti siano «personaggi» dalla solida professionalità in qualche campo culturale cool che non sia la letteratura”. Per quanto riguarda la prima categoria lascia intendere che tali scrittori sappiano scrivere; costoro rappresentano l’ultima ruota del carro, infatti sono “un investimento a basso costo” e sono “malleabili”; l’editore spende poco e manovra facilmente, se andrà male ci rimetterà solo pochi euro. Gli autori del secondo tipo, invece, nella vita si occupano di altro e per scrivere hanno bisogno dei ghostwriter, ma di solito l’investimento è più sicuro. Parecchi dei libri editati sono spesso lontani dalla letteratura e anche dalla narrativa. In ogni caso quello descritto da Simonetti è l’approccio usato da molti editori.
Alla fine siamo travolti da un mare di spazzatura, libri che non vale la pena leggere. Quelli che varrebbe la pena venissero letti, difficilmente incontrano i lettori, che sono sempre meno, perché non possono contare su una promozione adeguata.
Forse è vero: siamo destinati a istupidirci nell’esercizio disperato di rincorrere i social. Tutti, senza eccezioni.

Immagine dal web-

Share: