Il 20 maggio alle 18 sarò a Tolmezzo (Ud) con Massimiliano Fanni Canelles in occasione della V edizione del Maggio letterario. Il tema dell’incontro è il libro “La bambina con il fucile” (Auxilia Books, 2016), un romanzo non fiction ispirato alle vicende della guerra civile dello Sri Lanka, un conflitto iniziato nel 1983 e terminato nel 2009; nel libro è affrontato il dramma dei bambini soldato e degli abusi sui minori. La storia che ho scritto, di cui è stato protagonista Fanni Canelles, è vera e accende un faro sulla vicende di un Paese poverissimo, tornato di recente all’attenzione per la terribile catena di attentati dello scorso 21 aprile in cui sono morte 253 persone; in queste pagine racconto una realtà che tutti pensano sia molto lontana dalla nostra. In verità, seppure in modi diversi, talvolta anche da noi i bambini sono trattati come carne da macello, come provano alcuni recenti fatti di cronaca.
Per introdurvi alla storia de La bambina con il fucile, pubblico qui di seguito la prefazione al libro scritta da Davide Giacalone, giornalista e scrittore.
Prefazione
Queste pagine si ficcano nella testa come una scheggia. La vita poi scorre, si può superarle e dimenticarle, ma non dura: tornano a farsi sentire. Su quel che vi accingete a leggere c’è poco da dire e nulla da introdurre. Il piatto è così forte da non consentire contorno. Mi limito a porre due domande. Ciascuno provi a rispondere prima e dopo avere letto il libro. La prima: questa storia ci riguarda? La seconda: il mondo nel quale viviamo è peggiore o migliore di quello che ci siamo appena lasciati alle spalle?
La libertà e la dignità umane sono beni indivisibili. Nessuno è veramente libero se altri non hanno libertà. Nessuno vive dignitosamente la propria vita se ad altri è negata la dignità. C’è un filo, un nodo scorsoio, per meglio dire, che unisce il colonialismo di ieri al globalismo indifferenziato di oggi: l’idea che esistano non solo essere umani di valore superiore e inferiore, ma anche popoli di valore superiore o inferiore. Ieri con curiosa, ma incurante attenzione ai costumi altrui, su cui imporre la forza della propria tecnologia e della propria economia. Oggi con ignara e menefreghista accettazione di ogni costume e civilizzazione, in nome di un’uguaglianza che, in realtà, è solo il riflesso dell’assuefazione alla soddisfazione: nel mio mondo si vive bene così, sarà lo stesso anche nel vostro, senza che ci sia motivo di cambiarli. Tanto grandi sono la cecità e il malinteso senso di colpa di parte dell’Occidente ricco e sviluppato da spingerlo a cadere nella colpa di supporre che tutto possa essere tollerato, dalle infibulazioni agli stupri dei bambini, in nome della non ingerenza nei costumi e nella civiltà altrui. L’opposto, come si vede, del considerare libertà e dignità di ciascuno al pari della propria. Senza deroghe o eccezioni.
Pagina dopo pagina, questo libro spinge a sperare che sia solo una storia di fantasia, per quanto truce. Ho sperato che fossero fotogrammi di Il tempio maledetto, uno dei capitoli del fumettone Indiana Jones. Invece è la realtà. Se un solo bambino si trova in quella condizione, anche uno solo, ci riguarda o no? Troppo facile cedere alla domanda retorica, rispondendo affermativamente. La domanda difficile è la successiva: se ci riguarda, che facciamo?
Non solo non possiamo intervenire per ogni dove, ma in ancora troppe aree di questa Terra la guerra è una barriera infetta e respingente. Guerre che, nell’era del digitale e della globalizzazione, spesso ci riportano a storie del passato. Tale è quella che trovate qui, anche se svolta al presente. Altre simili sono in corso. Altre verranno (penso a potenze globali in cui l’equilibrio etnico è stato cambiato da politiche di spostamento e ripopolamento, creando problemi che non si vedono in superficie, che sembrano più leggende che non questioni aperte, salvo poi tornare prepotentemente a galla, non appena se ne presenta l’occasione). No: non possiamo essere ovunque e non abbiamo obblighi statuali in tal senso. Ma è anche vero il contrario: abbiamo doveri morali e individuali, potendo renderci utili ovunque. È quel che racconta questo libro: le forze che si sono mosse non sono imponenti, semmai colpiscono per la loro apparente debolezza. Quasi irrilevanza. Non hanno risolto i problemi politici, ma hanno dato preziosissimi aiuti alle persone. Una bambina è passata dall’essere una feroce assassina al divenire madre, generatrice di vita. È poco, forse, per il mondo. È tutto, non solo per lei, ma per tutti quelli che hanno preso parte a quel lavoro.
Anche la diplomazia italiana ha fatto la sua parte. Così come continua a farla. Ma, allora, se questa storia ci riguarda, come è possibile che non la si conosca di già? È una storia brutta, ma gli italiani che si sono mossi hanno fatto del bene. Dovremmo tutti esserne felici. Invece ignoriamo la faccenda e, in questo modo, rendiamo mille volte più difficile la vita e l’attività di quanti hanno fatto e continuano a fare del bene. Perché capita? La risposta è scomoda: perché la guerra e il dolore si vendono bene se hanno una colorazione ideologica; se si può sostenere che il nemico sta per invaderci e colonizzarci (un giorno guarderemo perplessi a ciò che in questi nostri anni molti stanno urlando); se si può raccontare che la colpa è nostra e delle nostre invasioni. Se invece non abbiamo colpe da scontare, ma solo meriti di cui essere fieri, la faccenda perde di interesse, i mezzi di comunicazione si distraggono, il pubblico si abbiocca. Fa notizia la lotta “contro”, meno quella “per”. @uxilia lavora “per”, dimostrando che si può fare. Doppia colpa: il racconto non consente schieramenti (il vero diletto nazionale) e dimostra che tutti possono fare qualche cosa (così mettendo in mora chi rimane a guardare, o, peggio, si volta dall’altra parte).
Ancora qualche lustro addietro, una guerra come quella qui descritta sarebbe divenuta teatro di confronto fra le due potenze mondiali. In quell’area, del resto, i morti si contarono a milioni, utilizzando questa formula. Se i sovietici prendevano parte a un conflitto, le democrazie occidentali prestavano aiuti all’altro fronte. E viceversa. Poco contava che gli alleati fossero soggetti accettabili o meno, perché erano comunque migliori dei nemici. Quel mondo lo abbiamo alle spalle, ma la cosa curiosa è che taluni lo rimpiangono, al punto da provare a resuscitarlo e riprodurlo, sebbene in un contesto storico del tutto diverso.
Quel mondo era sì una macelleria, ma consentiva di stabilire facilmente la differenza fra amici e nemici. Inoltre, dettaglio rilevante, i militi del nemico che agivano nei nostri Paesi (prima di tutto Italia e Germania, ma anche in Francia) non erano stranieri, ma connazionali. L’abbiamo chiamata Guerra fredda, perché le due potenze non potevano sfidarsi direttamente, ma generò moltissime guerre caldissime e sanguinose, considerate “locali”, così come generò il terrorismo.
Il mondo nel quale viviamo è migliore. È più aperto. Più ricco. La globalizzazione ha ridotto enormemente il numero dei morti di fame. Ma da noi ha innescato due fenomeni reazionari: i ricchi (noi) si sentono meno ricchi, fino al punto di immaginarsi poveri; i conflitti non sono più bicolori, ma hanno così tante sfumature da imporre un esercizio supplementare per poter capire e distinguere. Per questo molti suppongono che sia migliore il mondo di ieri del quale, oltre tutto, hanno un ricordo confuso.
La risposta alla seconda domanda, quindi, non teme smentite se si usa la ragione e la si basa sui numeri. Ma può cambiare segno se si usano le sensazioni e si soffia sulle paure. Tanto più, e torniamo a quanto appena sostenuto, che se il racconto pubblico è tutto incentrato sulla minaccia che gli “altri” comportano per “noi”, perdendo e ignorando quel che “noi” facciamo di bene per gli “altri”, la percezione finale è quella della corsa verso l’incertezza e il pericolo.
Leggere queste pagine, capirle, meditarle, lasciare che la scheggia resti fastidiosamente presente nei nostri pensieri, non è un gesto di generosità e di altruismo, non è bontà dispensata un tanto al chilo per tornare a farsi gli affari propri, al contrario è una scelta sanamente egoista, capace di ricordarci chi siamo o cosa facciamo, talché sia non solo legittimo, ma anche bello continuare ad accudire i propri affari.
La bambina di questa storia, vera, è salva. Altri bambini come lei e sperabilmente tutti i bambini del mondo possono essere salvati. È salva perché siamo abbastanza civili e ricchi da averla presa con noi, soccorsa e restituita alla sua vita. Chi crede che si possa restare ricchi e civili difendendosi dietro a un muro avrà in sorte lo spaccarcisi la testa. @uxilia il muro lo ha abbattuto nel modo migliore: andando là dove c’è bisogno. Il solo essere loro connazionale, fratello nella civiltà europea, mi riempie d’orgoglio e mi convince della effettiva superiorità di quanti neanche riescono a prendere in considerazione l’ipotesi di essere liberi e dignitosi se libertà e dignità non possono essere offerte a tutti.
Davide Giacalone
Giornalista e scrittore