All’inizio degli anni Cinquanta Ray Bradbury scrisse Fahrenheit 451, un romanzo distopico che descrive un mondo in cui i libri non devono esistere, infatti vengono bruciati, e la televisione è lo strumento di potere con cui la politica, passando attraverso lo schermo, omologa al ribasso la gente, il popolo.

Oggi questa è la realtà, la televisione è stata sostituita dal Web, per il resto ciò che pareva fantascienza è il nostro presente.

La nostra memoria storica è negata e Liliana Segre, che di questa memoria è un monumento, è costretta a vivere sotto scorta; i libri, anzi le librerie, vanno a fuoco, infatti la libreria antifascista “La Pecora elettrica” è stata data alle fiamme per la seconda volta quest’anno; a una bambina di colore viene impedito di sedersi su un autobus di linea e ciò accade ad Alessandria, in Piemonte e non nel Mississippi degli anni Sessanta. L’elenco continua ad allungarsi di minuto in minuto e faremmo bene a prestare la massima attenzione a ciò che accade perché ormai fascismo e razzismo hanno rotto gli argini.

Sono fatti e non opinioni.

Come è un fatto il senso di disagio che serpeggia in chi non riconosce più in un paese che, malato di ignoranza, ha perso il rispetto per se stesso, per i diritti umani e vive di odio e intolleranza: un impasto impossibile da digerire.

L’incipit di Fahrenheit 451:
“Era una gioia appiccare il fuoco.
Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse. Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel grosso pitone che sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue gli martellava contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non si sa quale direttore d’orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti, incendiarie, per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia. Col suo elmetto simbolicamente numerato 451 sulla stolida testa, con gli occhi tutta una fiamma arancione al pensiero di quanto sarebbe accaduto la prossima volta, l’uomo premette il bottone dell’accensione, e la casa sussultò in una fiammata divorante che prese ad arroventare il cielo vespertino, poi a ingiallirlo e infine ad annerirlo. Egli camminava dentro una folata di lucciole. Voleva soprattutto, come nell’antico scherzo, spingere un’altea su un bastone dentro la fornace, mentre i libri, sbatacchiando le ali di piccione, morivano sulla veranda e nel giardinetto della casa, salivano in vortici sfavillanti e svolazzavano via portati da un vento fatto nero dall’incendio.

Montag ebbe il sorriso crudele di tutti gli uomini bruciacchiati e respinti dalla fiamma.
Sapeva che quando fosse ritornato alla sede degli incendiari avrebbe potuto ammiccare a se stesso, specie di giullare negro, sporco di carbon fossile, davanti allo specchio. Poi, all’atto di coricarsi, si sarebbe sentito quel sorriso, una sorta di smorfia, ancora artigliato nei muscoli facciali, al buio. non scompariva mai, quel sogghigno, non se n’era andato mai nemmeno una volta per quanto riandasse con la memoria al passato.

Appese il nero elmetto color coleottero e si mise a lustrarlo; appesa poi la giubba antincendio, con molta cura, si abbandonò lungamente alle gioie di una doccia; poi, fischiettando, le mani in tasca, attraversò il piano superiore della casa del fuoco e cadde nel buco. All’ultimo momento, quando il disastro sembrava inevitabile, tolse le mani di tasca e interruppe la caduta afferrandosi al palo dorato. Scivolò fino a fermarsi con un suono stridulo, con i talloni a due centimetri dal pavimento di cemento del pianterreno.
Uscì quindi dalla casa del fuoco e si diresse per la strada notturna – era mezzanotte – verso la ferrovia sotterranea, dove il silenzioso convoglio ad aria compressa, scivolando come un’ombra dentro il suo budello bene oleato nelle viscere della terra, lo rigurgitò con uno sbuffo possente d’aria calda sulla scala mobile dal pavimento color crema, che saliva verso la superficie, nella zona suburbana.
Zufolando, si lasciò sollevare dalla scala mobile nell’aria pesante della notte e si spinse verso la cantonata, non pensando a nulla di speciale. Prima di giungere alla cantonata, tuttavia, rallentò, come se un gran vento si fosse sollevato chi sa dove, come se qualcuno lo avesse chiamato per nome.
In quelle ultimissime notti aveva avuto le sensazioni più vaghe e insolite sul marciapiede là, appena passato l’angolo, mentre alla luce delle stelle si dirigeva verso casa sua. Un istante prima di girare l’angolo, gli pareva di avvertire la presenza di qualcuno. L’aria sembrava carica di una calma particolare, quasi che qualcuno fosse stato là, in attesa, in silenzio, e solo un istante prima che egli comparisse si fosse semplicemente trasformato in ombra, per lasciarlo passare. Forse le sue narici percepivano un debole profumo, forse la pelle sul dorso delle sue mani, sulla sua faccia, sentiva la temperatura salire in quell’unico posto dove la presenza di una persona avrebbe potuto elevare l’atmosfera intorno di dieci gradi in un attimo. non si poteva capire. Ogni qualvolta girava la cantonata, vedeva soltanto il bianco marciapiede, deserto, ricurvo, con forse, la notte, qualcosa che svaniva rapidamente in fondo a un prato, prima che egli avesse potuto mettere a fuoco lo sguardo o dire una parola”.

 In alto immagine dal web: opera di Jacob Lawrence (1917-2000), fa parte della Migration Series

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