La questione della lingua, parlata e scritta, riguarda ciascuno di noi più di quanto pensiamo. Il modo in cui parliamo, e scriviamo, definisce la nostra identità nella vita di tutti i giorni, nel nostro privato e nella professione, inoltre circoscrive il “dove ci collochiamo” all’interno della comunità in cui viviamo. Purtroppo oggi assistiamo all’aggravarsi dell’analfabetismo funzionale, senza dimenticare l’analfabetismo di ritorno, fenomeni oggetto di un continuo dibattito. Gli analfabeti funzionali sono incapaci di usare in modo efficace le abilità di lettura, scrittura e calcolo nel quotidiano, ovvero sono limitati nel comprendere, valutare e usare le informazioni che ricevono. Il numero delle persone che non hanno pieno accesso alla comprensione della lingua è impressionante: quasi un italiano su tre è un analfabeta funzionale e al momento non sono state individuate soluzioni efficaci per una diversa e migliore alfabetizzazione.

La lingua è un bene che dovrebbe essere condiviso da tutti. Studiarla, conoscerla, monitorare il modo in cui si trasforma, e come la adoperiamo, non è interessante solo per gli addetti ai lavori e non è necessario lavorare con le parole per mestiere, magari per scrivere un libro, per approfondirne le modalità d’uso. Basta avere la consapevolezza della necessità di comprendere gli altri, ciò che dicono e scrivono, e di farsi capire quando parliamo e scriviamo a nostra volta.

Don Milani diceva che: “Ogni parola che non impari oggi è un calcio nel culo che prendi domani”, un principio più che mai valido.

Per capire le molteplici utilità di una visione ampia sull’evoluzione della nostra lingua è interessante, e anche piacevole, leggere “Il sentimento della lingua”, edito da il Mulino (testo in forma di conversazione tra Giuseppe Antonelli, professore ordinario di Storia della lingua italiana nell’Università di Pavia, che dialoga con Luca Serianni, professore emerito di Storia della lingua italiana nella Sapienza – Università di Roma).

Dalla quarta: La lingua che parliamo dice molto di noi e del modo in cui stiamo nel mondo. È uno strumento di formazione non solo individuale e collettivo, ma anche, in senso ampio, civile. In questa conversazione con Giuseppe Antonelli, Luca Serianni torna su alcuni nuclei centrali della sua attività di grammatico e di storico della lingua: la norma e l’uso, l’insegnamento scolastico e universitario, l’italiano della poesia e del melodramma. È un libro dal tono affabile, ricco di aneddoti, che offre nuovi e originali spunti di riflessione. Davvero quella dei ragazzi di oggi è la «generazione venti parole»? È ancora utile studiare le lingue classiche? Usare il dialetto è un bene o un male? La grammatica si va impoverendo? E quanto conterà, per la lingua del futuro, la rivoluzione digitale? Un dialogo appassionato sull’italiano, la sua storia e il suo presente: la sua importanza per la vita della nostra comunità e delle nostre istituzioni.

Qui sotto un estratto dal volume “Il sentimento della lingua”, edito da il Mulino (domande di Giuseppe Antonelli, in dialogo con Luca Serianni).

Mi piacerebbe dare insieme a te uno sguardo al futuro. La prima domanda è, allora: come ti piacerebbe che fosse l’italiano dei prossimi anni o decenni?
«Mi piacerebbe che fosse una lingua condivisa; in tre direzioni. All’interno della comunità dei parlanti, la padronanza linguistica dovrebbe estendersi ai registri non colloquiali, quelli che vanno oltre la contingenza quotidiana, oltre il “lessico fondamentale” definito da Tullio De Mauro. È un auspicio che comporta prima di tutto, com’è ovvio, un incremento del livello culturale medio, a partire dalla lettura e dal contatto con la grande tradizione letteraria. La seconda direzione riguarda i “nuovi italiani”, ai quali bisogna assicurare tutti i diritti dei nativi, a partire dalla lingua. Non basta che un bambino sia nato in Italia: imparerà certamente, andando all’asilo e a scuola, un italiano parlato e colorito regionalmente indistinguibile da quello dei suoi coetanei, e con loro condividerà l’orizzonte di vita (giochi, immaginario televisivo eccetera), ma senza il retroterra linguistico assicurato da chi abbia genitori e nonni italofoni. Si tratta di un capitale prezioso, sul quale è doveroso investire. Terza direzione: l’italiano all’estero. Ha dell’incredibile — in presenza di condizioni non favorevoli (scarso peso della lingua italiana nel mondo, numero relativamente ridotto di parlanti nativi, penuria di risorse finanziarie) — l’interesse che suscita l’italiano all’estero. Continuare a trascurare questo aspetto sarebbe grave: sia per quel che riguarda l’investimento simbolico sull’identità italiana, sia per quel che riguarda, concretamente, gli aspetti economici, a partire dal turismo, un settore colpevolmente in crisi».

Trovate un estratto più esteso qui, su Corriere.it

 

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