Nella scrittura di un romanzo autobiografico quanto pesa il racconto orale del narratore? In che modo e in quale misura la sua storia viene trasferita sulla pagina scritta? E il libro quanto gli sarà “vicino”?

Non esistono regole valide in generale così come non è possibile rispondere in modo univoco a queste domande. Nel mio lavoro di scrittore delle storie degli altri, mi confronto di continuo con l’unicità di ciascun narratore, con il modo in cui racconta, con il genere e i contenuti della storia. Le mie scelte rispetto la scrittura dipendono anche dalla richiesta che mi viene fatta a monte: il libro è destinato a restare privato oppure il narratore intende pubblicarlo?

Il narratore che decida di collaborare con me non dovrà scrivere neppure una parola; a lui spetta il compito di raccontarmi la storia, e non è poco. Io rischio di più, infatti quando inizio a lavorare a un nuovo libro non ho alcuna certezza circa la qualità del contributo del narratore, non so se condivideremo alla pari lo sforzo, o se la situazione richiederà un maggiore impegno da parte mia. È certo che anche la più fantastica delle storie per crescere e diventare un romanzo ha bisogno di incontrare lo scrittore che sappia reinventarla e scriverla in modo da catturare l’interesse dei lettori.

Dal racconto orale alla pagina scritta cosa cambia? Il libro, il romanzo, deve raccontare la storia in modo efficace e coinvolgente e proprio per questo, per garantire una scrittura all’altezza del compito occorre rendere finzione ciò che è realtà, trasformare il narratore in personaggio per arrivare a creare un racconto.

Nell’ambito letterario gli elementi di realtà e di finzione da cui nasce un romanzo autobiografico, o biografico, o comunque ispirato a vicende realmente accadute – quindi uno scritto riconducibile al genere non-fiction -, non sono mai distanti tra loro e tanto meno in contrasto. Infatti rappresentano gli ingredienti di un amalgama che, se ben dosato, può produrre un risultato sorprendente, in certi casi e per certi aspetti perfino “più vero del vero”. Per questo nel processo di produzione di un’opera non fiction lo scrittore utilizza anche elementi di pura invenzione per traslitterare la realtà e modellare la stratificazione dei ricordi del narratore.

E la storia “vera”? La verità da fissare su carta? Come dico sempre, sarà rappresentata la migliore delle verità possibili, la nostra, quella del narratore passato attraverso il mio filtro. Spiega bene quanto intendo dire, pur rovesciando il punto di vista, ciò che ho letto di recente in un articolo su Rivista Studio a proposito di un racconto di chiara impronta autobiografica scritto da Hemingway e rimasto inedito fino a questo momento. Il testo riporta brani di un’intervista al nipote del grande scrittore: «Come scriveva mio nonno a proposito del suo libro di memorie Festa mobile – che lui stesso definiva “fiction” – un’opera di finzione è sicuramente in grado di far luce su eventi reali». Di sicuro Ernest Hemingway la sapeva più lunga di chiunque, nel merito!

Foto di Susann Mielke da Pixabay

 

 

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