In questi giorni sono usciti diversi articoli che trattano della disputa tra Emmanuel Carrère e Hélène Devynck, la sua ex moglie. Tra i due esiste un accordo legale redatto al momento del divorzio che impedisce allo scrittore francese di scrivere della ex consorte senza la sua autorizzazione. A quanto pare, nel nuovo romanzo Yoga Carrère non ha rispettato l’accordo, o almeno è quanto ha dichiarato Devynck in una lettera aperta pubblicata su Vanity Fair. Il libro è già un successo annunciato in un’epoca in cui il pubblico apprezza soprattutto le storie vere, le testimonianze, le memorie mentre le opere basata sulla pura invenzione narrativa perdono terreno. È il momento della biografia, dell’autobiografia, della nonfiction e dell’autofiction. Proprio quest’ultimo è un genere in cui Carrère eccelle, ne è un esempio estremo il racconto erotico Facciamo un gioco, un’opera di diversi anni fa. Si tratta di una lettera indirizzata dallo scrittore alla sua compagna di allora, destinata a comparire sull’edizione di Le Monde del 20 luglio 2002; la donna avrebbe dovuto leggerla, e con lei gli altri viaggiatori e i lettori del quotidiano, durante un viaggio in treno la cui meta era l’abitazione dell’autore. L’esercizio letterario di cui la donna non sapeva nulla era finalizzato alla realizzazione della fantasia erotica dello scrittore. Tutto andò storto, a quanto pare, perché la fidanzata di Carrère perse il treno e, venuta a conoscenza del “gioco”, decise di porre fine alla loro relazione.

In attesa di leggere Yoga, la cui uscita in Italia è prevista per la primavera del 2021 a cura di Adelphi, prendo spunto dalla notizia per riflettere sulla dilagante tendenza all’autofiction che, semplificando molto, potremmo definire una forma ibrida di autobiografia composta da un amalgama di realtà e finzione. Ormai scrivere di sé e di ciò che ci circonda rappresenta un modello narrativo a pieno titolo, la realtà è più interessante di qualsiasi finzione letteraria e la tendenza all’autobiografismo declinato in diverse forme, un genere letterario finora considerato minore, si va sempre più affermando. Gli scrittori prendono spunto dalla realtà per le storie che raccontano, più o meno lo hanno sempre fatto, talvolta pescano in modo spudorato da ciò che accade molto vicino a loro, in famiglia, tra gli amici intimi. A volte raccontano l’irraccontabile con poco riguardo per chi li ispira e, nonostante gli artifici narrativi, le persone che animano i personaggi dei loro libri restano identificabili, magari non per tutti, di sicuro per parecchi, o per pochi, comunque per qualcuno. Forse uno degli obiettivi è proprio questo: gratificare taluno, pareggiare i conti con talaltro, o rivendicare le proprie ragioni senza contradditorio. Ovviamente l’autore che dimentichi il diritto alla riservatezza degli altri dovrà sempre mettere in conto le possibili ricadute, quasi mai piacevoli.

Quanto detto vale per gli scrittori e ancor più per le persone comuni che intendono imbarcarsi in un progetto di scrittura autobiografico. Oggi l’autobiografia non è più un privilegio riservato solo agli importanti di questo mondo, chiunque abbia un vissuto significativo può sognare di scrivere un libro in collaborazione con un uno scrittore, un ghostwriter. Per compiere l’impresa ci vogliono la “Storia”, il coraggio, perché l’operazione ne richiede una buona dose, e i soldi.

Così il narratore comincia a raccontare di sé e non solo. È inevitabile che incroci la propria storia con quella di altri: amici, nemici, amanti, parenti. La famiglia! 😱  Come reagiranno costoro riconoscendosi nelle vesti di inconsapevoli personaggi tra le pagine di un libro?

Nel mio lavoro di scrittore fantasma affronto il problema dell’identificabilità della storia e dei personaggi che la abitano in ogni libro che scrivo. I narratori, le persone che mi raccontano le loro esperienze di vita affinché io le traduca in un romanzo, raccontano di sé, della famiglia, degli amici e dei nemici, svelano situazioni scabrose, talvolta pericolose. Di norma hanno un atteggiamento ambivalente rispetto alle cautele da usare per evitare problemi; c’è chi fatica a muoversi in un contesto diverso dal reale, con personaggi dotati di nomi, professioni e consuetudini differenti da quelli delle persone che li ispirano e preferirebbero mantenere i nomi e i cognomi originali. Altri invece si ritrovano facilmente nella nuova scena composta da un mix di realtà e invenzione che resta comunque fedele alla trama reale, rinnova e amplifica le emozioni a suo tempo provate; però capita che lo stesso narratore si spaventi per il potere evocativo della scrittura e si preoccupi dei personaggi, almeno di quelli che si potranno identificare con certezza, magari meno di un paio di persone e tuttavia… Inizia il panico, il narratore si domanda: chissà se loro, le mie persone, riusciranno ad apprezzare il libro, o se si offenderanno irreparabilmente?

I danni collaterali si possono contenere del tutto, o in parte, mantenendo la massima riservatezza sul progetto di scrittura che si intende realizzare e ricorrendo all’escamotage dello pseudonimo letterario. L’anonimato ha molti vantaggi. Una volta testato l’effetto del libro, il narratore potrà anche decidere di svelarsi. Al contrario, togliersi dalla luce dei riflettori a posteriori è complicato e di sicuro comporta delle conseguenze.

Ti interessa sapere di più su questo tema? Leggi: Le rivelazioni autobiografiche e la privacy degli altri.

Immagine d’apertura di Mystic Art Design da Pixabay
Qui sotto una vignetta di Tom Gauld da In cucina con Kafka, ed.Mondadori

 

tom gauld cucina con kafka

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