Works, una sorta di autobiografia, o meglio un memoir che si sviluppa sul filo dei ricordi dei tanti lavori svolti dall’autore, è il primo libro di Vitaliano Trevisan che leggo. Di certo non sarà l’ultimo.

Trevisan, nato a Sandrigo (Vi) nel 1960, racconta la sua storia a partire dall’adolescenza, dal primo lavoro in una fabbrica di gabbie per uccelli cui lo avvia il padre affinché guadagni i soldi necessari per concedersi il lusso di una bicicletta con il palo, da maschio. Prosegue narrando se stesso che cambia mille posti di lavoro rivestendo i ruoli più disparati in quel Nordest cui appartiene, una terra in cui il lavoro, allora facile da trovare, è l’unica religione. La narrazione si conclude intorno ai suoi quarant’anni, quando smette il vizio di lavorare per dedicarsi completamente alla scrittura. Nel mezzo c’è una terra che si trasforma in territorio da spolpare per chi ne è capace, i più furbi, e rappresenta un condensato di quell’Italia in cui convivono l’illegalità, la corruzione, i favori, la droga, gli imprenditori e gli altri, i padroni che dividono la stessa vita, rischi e fatica, dei loro operai, tutto in un coerente groviglio di contraddizioni.

Che degli atei, a parole, estremisti di sinistra, per un breve periodo e non solo a parole, abbiano infine accettato una raccomandazione vescovile, e abbiano su questo costruito la loro vita, oltre a far ridere, fa anche capire bene perché, come scriveva Piovene, da quel Veneto filtrato non sarebbe mai potuto partire alcun movimento genuinamente rivoluzionario”.

La stile dell’autore privilegia i periodi molto lunghi per niente faticosi da seguire, così come i salti temporali, le descrizioni tecniche per addetti ai lavori non sono mai noiose, per non dire delle note a piè di pagina, spesso un godimento. Trevisan identifica ciascun personaggio con le sole iniziali, con il Lui per il famoso architetto, con soprannomi evocativi, talvolta usa espressioni dialettali. Inutile aggiungere altro, egli domina una scrittura originale e del resto, così come racconta nel libro, è nato scrittore, dispone di un talento naturale che gli consente qualsiasi acrobazia e di cui è consapevole. Nel libro Trevisan indica il 18/11/92 come la data esatta in cui comincia a scrivere; in seguito “… il primo personal computer, comprato appositamente nel febbraio ’93, e da lì subito tre racconti, uno in fila all’altro, tutti già chiusi, per così dire, compiuti, cioè non sottoponibili a qualsivoglia editing. […] … o la nostra scrittura è cosa solo ed esclusivamente nostra, oppure è altro. Se è altro non vale la pena”. E nella nota precisa che per lui «editing» e «industrializzazione» sono la stessa cosa.

Nel peregrinare da un posto di lavoro all’altro mette a fuoco e descrive un’armata di uomini e donne trasformati in macchine da lavoro perché nel Nordest il lavoro è un destino, fuori da lì c’è solo il vuoto e perfino gli affetti passano in secondo piano, o magari sono funzionali in qualche modo al lavoro, talvolta a mantenere il timone dell’azienda (un esempio sono le mogli che hanno intestata la ditta e costituiscono il matriarcato sottotraccia). Quel che conta sono i soldi, la ricchezza vera e quella apparente di tanti padroni che spesso sgobbano al solo scopo di incassare abbastanza per tenere in piedi la baracca. L’autore mette in luce le storture del sistema analizzando con lucida accuratezza il territorio e ciascuno degli ambienti che il lavoro gli consente di esplorare e allo stesso tempo affronta il proprio disagio personale, un tema lasciato sullo sfondo ma sempre presente. Attraversa una nuova esperienza dopo l’altra spesso controvoglia, ma sempre con rigore, cercando di dare il meglio: manovale, cameriere, geometra, direttore di produzione, lattoniere, disoccupato in mobilità, gelataio in Germania, magazziniere, orafo a modo suo e colf a casa sua, per non dire del ruolo di spacciatore che comunque è fatica. Spesso manda tutto per aria e abbandona il posto proprio quando potrebbe raccogliere i risultati migliori. Perché lo fa? Alla fine lui deve seguire la sua strada, una strada solitaria: deve scrivere.

Pensando alla mia storia lavorativa nel suo complesso, potrei ben dire che di altro non si sia trattato se non di una lunga successione di false partenze, di strade imboccate senza sapere bene perché, e tutte presto o tardi lasciate. Ciò nonostante, almeno da un certo punto in poi, una sorta di progressione, più che una vera e propria carriera, cominciò a configurarsi. Non una parabola. Nemmeno un arco. Niente linee curve nella mia vita, ma una spezzata, i cui segmenti si tengono a quel titolo di studio che non avrei mai voluto conseguire […]” .

Sullo sfondo dei lavori regolari e sommersi raccontati dall’autore c’è l’esistenza “di contorno”: i pochi amici, il disagio psichico, le sostanze, le donne, i parenti, la moglie, il destino che lo porterà ad essere espulso dalla vita fin lì costruita per mano della famiglia d’origine, la madre e la sorella, e di quella acquisita, la moglie. Anche allora “Vale però sempre il patto che puoi andartene, o puoi essere mandato via, in qualsiasi momento; fa parte delle regole del gioco”.

Quando si cammina ai margini, non c’è spazio per gli assembramenti, si incrociano solo individui“.

Works di Vitaliano Trevisan
2016, Einaudi Stile Libero Big
pp. 664

Immagine d’apertura Image by Peter H from Pixabay
Immagine nel testo Vitaliano Trevisan nel 2004

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