Nei giorni sospesi delle feste d’inverno ho scelto di tornare a incontrare un autore che amo molto: Georges Simenon. Tra i libri che ho letto di questo autore, e che ricordo bene, ci sono La camera azzurra del 1964, L’uomo che guardava passare i treni del 1938, Tre camere a Manhattan del 1946 e Il fondo della bottiglia del 1956. Per caso nessuno di questi titoli ha a che fare con il filone di Maigret e in effetti ancora una volta ho rimandato l’incontro con il popolare commissario della squadra omicidi parigina, infatti anche le quattro storie appena lette, una più nera dell’altra, non appartengono a quella serie: Il fidanzamento del signor Hire del 1933, L’uomo di Londra del 1933, I Pitard del 1935 e La neve era sporca del 1951, tutti editi da Adelphi.

Come sempre caratteristica dei personaggi di Simenon è la scoperta di quella parte di sé rimasta nell’ombra per tutto il corso di un’esistenza ordinaria, perfino banale, fino al momento in cui accade qualcosa che porta a galla una nuova verità, svela il lato segreto che non sapevano di possedere e che pure finiscono per individuare. La scrittura è sempre asciutta, mai una parola di troppo, i personaggi si fanno conoscere attraverso i tratti, i gesti che compiono. Ogni pagina è un esempio di perfezione al punto che riesce a coinvolgere il lettore impastandogli la bocca d’amaro per il tormento del protagonista che spesso chi legge arriva quasi a fare proprio. Tra i quattro i romanzi appena letti quello che forse mi ha più colpito è La neve era sporca, una storia durissima, cupa, opprimente.

Frank, il memorabile protagonista di questo romanzo, ha diciannove anni ed è figlio dell’attraente tenutaria di una casa di appuntamenti in una città del Nord durante l’occupazione nazista. Freddo, scostante, insolente, solitario, Frank vuole in segreto una cosa sola: iniziarsi alla vita. E crede che il modo migliore per farlo sia questo: uccidere qualcuno senza ragione. Lo fa. Poi compie altri crimini, sempre in qualche modo gratuiti. Con sbalorditiva sicurezza, Simenon entra nella testa di questo personaggio al limite fra l’abiezione e una paradossale innocenza, abitante di quella psichica terra di nessuno di cui Dostoevskij è l’invisibile guardiano. E intorno a lui fa vivere, fino a dargli una presenza allucinatoria, il mondo della neve sporca, la sordida scena di una città dove tutto è tradimento, rancore, doppio gioco. Non solo: ma su questo sfondo cupo e sinistro riesce a tracciare, quasi prendendoci di sorpresa, una storia d’amore che è una sorta di triplo salto mortale, perfettamente riuscito e convincente.

Per conoscere meglio lo scrittore consiglio la lettura di un’intervista del 1955 a cura di Carvel Collins, pubblicata sulla celebre rivista americana The Paris Rewiew, ora presente in una raccolta di Fandango; è una “lezione” sull’arte di scrivere ed è online qui: Simenon: così ho imparato a raccontare che cos’è l’uomo.

Cit. dall’intervista a Geogers Simenon a cura di Carvel Collins:
Cosa intende con  “troppo letterario”?
“Aggettivi, avverbi, e ogni parola che è lì solo per fare effetto. Ogni frase che è lì solo per la frase. Hai ottenuto una frase meravigliosa – tagliala. Ogni volta che trovo una cosa del genere in uno dei miei romanzi la devo eliminare”.

 

Più info:
RaiPlay – Intervista a Geogers Simenon

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