Ogni tanto mi piace chiudere gli occhi e tastare con le mani i volumi che dormono su uno dei ripiani di quella che chiamo “la libreria vecchia”. Sono libri di famiglia, lasciti accumulati negli anni, oltre un migliaio di tomi in aggiunta ai miei che sono già tanti di più. Sono libri letti e vissuti da altri che ho conosciuto un tempo e magari anche da qualcuno di cui non ho mai sentito parlare. Mi piace pensare che, poiché abbiamo incrociato le stesse pagine, questi sconociuti fantasmi del passato e io, a mio modo un fantasma nel presente, ora avremo qualcosa in comune.

Oggi lo scaffale di turno mi ha regalato un romanzo di Lalla Romano per me nuovo: “L’uomo che parlava solo”.

Si tratta di una vecchia edizione, un po’ squinternata dall’uso, pubblicata da Mondadori per la collana “Il Bosco” nel 1966 e allora venduta per £.650 equivalenti a € 6,58 di oggi, o almeno così dice il convertitore; la prima edizione a cura di Einaudi era uscita nel 1961. Faccio qualche ricerca nel sito dedicato alla scrittrice – lallaromano.it – e scopro che questo è l’unico romanzo in cui l’io narrante è un personaggio maschile, sperimentazione che l’autrice non ha più ripetuto. È il monologo di un impiegato di mezza età che con dolore e rassegnazione cerca di capire il perché di un legame troncato con una ragazza, Alda, che vive ai margini della vita, e del disamore per la donna che ha sposato, Nora.

Quando uscì, nel 1961, il libro fu recensito da Eugenio Montale, Oreste del Buono, Geno Pampaloni, Giuliano Manacorda e altri nomi famosi che appartengono a un’epoca che ricordo bene. Cito l’unico commento da una voce femminile, quella di Dacia Maraini, trovato nella pagina dedicata: “Trovavo lo stile di Lalla Romano luminoso e struggente. Mi faceva pensare alle stelle; c’era una lontananza del narratore dall’oggetto narrato, talmente assoluta da risultare irrecuperabile e perciò terribile. Nello stesso tempo sentivo una vicinanza ironica e sospesa, caritatevole e affettuosa. Ecco, da questa contraddizione, penso oggi, nasceva la bellezza ammaliatrice di quel libro”.

Leggo l’incipit, la prosa è poetica, limpida, essenziale. Oggi la mia caccia al tesoro, il mio giocare a mosca cieca tra i vecchi libri, mi ha regalato una bella sorpresa.

Ecco l’incipit:

Tutti gli orologi si sono fermati.
Io mi trovo in bilico, fermo su un punto. No, è un filo: teso. Dovrei percorrerlo, passare di là; se sarò capace, se non cadrò nel vuoto.
Questo filo davanti a me non so nemmeno se sia il mio futuro o il mio passato.
Se mi muovo, gli orologi riprenderanno a battere. Mentre penso questo, forse ho già compiuto un impercettibile movimento. Ma non devo guardare il filo.
Non sto mica sognando. Come potrei cadere? Mi trovo nel punto più basso; sono sul
fondo.
Non su un filo, ma su una strada. O forse non una strada, una piatta pianura senza strade. Posso procedere a casaccio.
Quello che non posso, è distendermi e dormire. Non vorrei nemmeno.
Tengo gli occhi chiusi, e vedo.
Una pianura, senza un albero, senza una casa, e in fondo all’orizzonte, il cielo. Tutto vuoto.
Invece sono qui, seduto su una panchina, davanti al mare. Il mare è sabbioso, vuoto anche lui. Troppo molle. Non si può camminare, sul mare.

Immagine nel testo: Graziella Romano, detta Lalla (1906– 2001), è stata una poetessa, scrittrice, giornalista e aforista italiana.

 

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