È trascorsa una manciata di giorni dagli attacchi con armi chimiche che hanno fatto molte vittime, anche bambini, in Siria, purtroppo solo uno dei tanti episodi nelle sequenza di azioni ostili che si susseguono di continuo. Dalla nostra parte del mondo ci limitiamo a commentare con un chiacchiericcio indistinto. Di fronte a certi eventi servono solidarietà, piccoli gesti concreti portati avanti senza ostentazione. Serve pudore. Adesso il ricordo di quella tragedia sta già sfumando. L’Occidente dimentica in fretta, sempre più indifferente. I cattivi pensieri, i pensieri amari, mi hanno ispirato un racconto. Per chi avrà voglia di leggere.

Occidente

Aveva guardato il filmato. Due volte.
I bambini agonizzanti che cercano l’aria con la bocca. Pesci mollicci, disposti a caso su lastre di plastica ondulata, annaffiati dal getto di una canna. L’acqua per togliere il veleno e tenerli in vita.
Fino al prossimo attacco.
Ore, giorni, qualche mese.
Non sanno neppure chi e cosa li sta uccidendo.
Il video era arrivato alla fine solo per ricominciare e lei, attenta o forse avida, non aveva mai distolto lo sguardo. Quella cosa che la prendeva in gola assomigliava più all’assuefazione che allo sgomento.
Aveva spento.
Era notte fonda e bisognava dormire. Fuori il buio e la luce dei lampioni restituivano le solite ombre mentre la luna somigliava alla lente di un cannocchiale puntato su un altro universo. Magari da lì sarebbe arrivato un nuovo destino.
Assolse i soliti riti che precedono il riposo, una sequenza di piccoli gesti precisa e rassicurante; il piacere di vivere soli, senza nessuno che ti soffochi. Nessuna condivisione.
Si era struccata, aveva sciacquato il viso con l’acqua fredda, poi aveva aperto quella calda. In pochi secondi era diventata bollente, quasi non riusciva a bagnarsi le mani eppure… Nello specchio la faccia era rosso gambero, gli occhi da matta. Le bruciava la pelle, il respiro in affanno.
Forse era questo? No, la respirazione stava tornando regolare, non boccheggiava. L’aria entrava e usciva, poteva usare naso, bocca e polmoni senza disagio, senza controllo. In modo del tutto naturale.
Che cretina!
Le era rimasto impresso lo sguardo del bambino che respirava pompando l’aria dallo stomaco. Lo avevano sistemato ai margini della distesa di corpi in cerca di speranza. Ricordò che aveva gli occhi aperti, senza espressione. Due croste molli.
Adesso dov’era? Il video era stato caricato circa dieci ore prima. Forse era morto e giaceva dentro una catasta di cadaveri, sul cassone di un camion, o magari l’aveva sfangata e stava in un letto di ospedale.
Aveva finito di spalmare la crema da notte con un massaggio lento dal collo fino alle tempie. Nei dieci passi che la separavano dal letto aveva smesso di pensare. Un blackout talvolta aiutava a sopportare di vivere nell’indifferenza.
Sistemati i cuscini nella posizione più adatta alla lettura, si era infilata nel letto, il libro già in mano e un indizio di bruciore allo stomaco che saliva, saliva piano. Attraverso il lucernario socchiuso filtrava il chiarore della notte, una luce blu naturale con dentro il riflesso della luna: ET, telefono, casa, una storia che la consolava.  Rannicchiata tra le lenzuola come dentro una pancia, sentiva che il fastidio andava crescendo, allora aveva cominciato a massaggiarsi i piedi. Le piaceva. Oddio, sarebbe stato meglio che fosse stato qualcun altro a massaggiarla, un uomo, uno più giovane. Il sorriso sbocciato nella penombra aveva il taglio di una lama seghettata.
E poi, quello che stava succedendo… Non ci voleva pensare.
Un sbocco di roba acida s’arrampicò su per l’esofago fino in gola. L’odore le riempì il naso mentre un dolore acuto occupava il petto. Ogni volta entrava in paranoia, poteva pur sempre essere un problema di cuore, invece era il solito reflusso dovuto alla tensione.
“Dai”, pensò, “dormi che se no ti ritrovi due segni blu sotto gli occhi”. L’indomani aveva appuntamento dal notaio per cambiare il testamento: voleva lasciare un piccolo legato all’associazione animalista, dopo sarebbe passata a trovare la sua amica all’istituto. Una cosa di dieci minuti, tanto Anna non la riconosceva, però l’assolvere il dovere di quella visita la metteva in pace con la coscienza. Un aneurisma. Fosse capitato a lei avrebbe preferito morire.
L’immagine del bambino si era intrufolata di nuovo nella sua testa. Doveva lasciarla andare, tanto non poteva fare niente. Sempre il solito problema: da soli si è impotenti dunque non era colpa sua se quegli altri, nati lontano da lei, annegavano nella disperazione. Decideva il caso. In verità, nessuna autorità sarebbe mai intervenuta per fare giustizia, salvare chi andava difeso.
Quei maledetti pensieri l’avevano calata in un’angoscia più forte del mal di stomaco. Un sonno nato male l’aveva trascinata via con la luce dell’abatjour ancora accesa.

Si era svegliata in uno spiazzo di terra battuta marrone. Non un filo d’erba, solo zolle morbide e rotte.
Era la periferia di una città che conosceva, ma non ne ricordava il nome.
«C’è nessuno?» aveva gridato al vento, rabbrividendo. Intorno a lei c’era solo assenza. Prese una manciata di terra e la fece scorrere tra le dita: polvere morta.
Aveva ripercorso il panorama. Gli edifici, alti pochi piani, avevano tutti lo stesso colore marrone. Qualcuno era male in arnese, c’erano dei muri sbrecciati, tutto era immobile.
Sì alzò con fatica e cominciò a camminare verso il centro abitato. A ogni passo l’inquietudine cresceva. Quando fu prossima alla prima casa lesse la scritta nera impressa sul muro: Non respirate.

Sorpresa e raggelata era scattata a sedere sul letto; si era asciugata la faccia madida con il risvolto del lenzuolo. Sentiva una morsa stringere lo stomaco e il cuore, i pensieri le rotolavano in testa come il bucato nella lavatrice. Avrebbe voluto bere qualcosa, ma di alzarsi non se ne parlava. Maledisse di essere sola. Allungò la mano sull’IPad che dormiva nel lato vuoto del letto, avrebbe dato un’occhiata all’Ansa. Anzi, no. Non era il caso nel cuore della notte. Quelli che stavano morendo lontano da lì avrebbero comunque seguito il loro destino. Si sentì grata per avere aperto gli occhi, tanto tempo prima, nella parte giusta del mondo, la migliore. Rassicurata, si lasciò andare sui cuscini, fissando la luna attraverso il lucernario. Sembrava che un insetto la stesse attraversando, invece era un aeroplano e anche se era notte si vedeva che lasciava una scia che sembrava la coda di un incendio. Di nuovo i sensi all’erta, ma per poco. Il volo procedeva regolare, nonostante la coda di fumo.
Si mise a fantasticare su quale potesse essere la destinazione dei passeggeri: Londra o Parigi o magari New York. No. Meglio un posto esotico, una spiaggia da godere in buona compagnia. Era immersa nel ricordo di una vacanza alle Maldive del tempo in cui le cose andavano bene, quando arrivò il rumore secco di un colpo sul vetro. Un uccello, al buio le sembrò un piccione, aveva concluso malamente il suo volo.
Ecco una cosa che portava male! Controllò l’ora: mancava poco alle sei. Un’altra notte persa tra sogni e fantasie. Spense la luce della lampada sul comodino, fuori cominciava ad albeggiare; avrebbe potuto dormire un paio d’ore, magari senza sognare. Un altro piccione precipitò contro la finestra, lasciando sul cristallo una scia di sangue e nell’aria un vortice di piume. La stanza fu invasa da un leggero odore di canfora. Ebbe il primo conato di vomito.
Non respirate.

 

 

 

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