Qui scrivo di libri, di letture, di scrittura, di cinema e di incontri, qualche volta riporto la cronaca di una piccola avventura con l’intento e la speranza di suscitare un sorriso in chi si trovi a navigare le mie pagine. C’è bisogno di molti sorrisi per alleggerire il presente grigio che stiamo attraversando. Oggi però ho altro da dire perché da ieri l’orizzonte mi pare ancora più cupo. La mozione per la commissione contro odio, razzismo e antisemitismo, proposta da Liliana Segre, è passata in Senato con 151 voti favorevoli, nessun voto contrario e 98 astensioni, dunque non ha ottenuto l’unanimità. I rappresentanti della Destra – Lega, FDI e FI – si sono astenuti non solo dal voto; neppure hanno reso omaggio a Liliana Segre, restando seduti e negandole l’applauso lanciato dai Senatori delle altre parti politiche. Un comportamento inaccettabile su una questione che va oltre la politica.

Stiamo arretrando, c’è sempre meno spazio per la Cultura dei Diritti Umani, per questo è importante ricordare quello che è accaduto e che potrebbe tornare ad accadere a chiunque di noi, nel momento in cui diventi un diverso.

Racconta Liliana Segre:

“Avevo 8 anni ed ero una bambina, famiglia italiana da generazioni e generazioni. Facevo parte di quella minoranza di cittadini italiani di religione ebraica – trentacinquemila persone al tempo – che, di colpo, con le leggi razziali fasciste diventarono cittadini di serie B all’inizio, per poi arrivare a diventare di serie Z.
Otto anni e, all’improvviso, mi dissero che non potevo più andare a scuola. Era l’estate del 1938, avrei dovuto iniziare la terza elementare. I miei erano agnostici, laici, in casa non sentivo mai parlare di feste ebraiche, di questioni religiose o di appartenenze particolari, fu, quindi, per me, molto più difficile, anche per questo, rendermi conto che mentre io mi sentivo così uguale alle altre bambine, venivo da quel momento considerata una diversa.
Ed è stato allora, quando il mio papà cercò di spiegarmi che non potevo più andare a scuola per quelle leggi razziali fasciste, che io ho strappato il cordone della mia infanzia. Mi ricordo tutto di quell’istante. […]

Ero orfana di mamma, per cui mio padre era tornato a casa con i suoi genitori. In quegli anni della persecuzione, scrutavo i visi umiliati e dolenti delle persone che mi volevano bene, guardavo i loro occhi, sentivo i loro discorsi – quelli che mi facevano sentire – percepivo una zona d’ombra: quella dell’indifferenza, una costante: la violenza psicologia terribile di chi, pur non compiendo alcun gesto o non esprimendo alcun commento contro di noi, voltava però la faccia dall’altra parte: non erano persecutori, non erano carnefici… semplicemente non c’erano. Voltavano la faccia dall’altra parte. E io mi ricordo di aver sentito in casa frasi simili a questa: «Abbiamo incontrato il tale e non ci ha salutato» oppure mi ricordo le telefonate anonime vigliacche, di cui anch’io qualche volta ero vittima perché andavo a rispondere al telefono, oppure le lettere anonime di cui sentivo parlare vagamente, capivo che arrivavano, traspariva dallo stato d’animo di chi aveva aperto la busta, leggendovi parolacce.
Era la sensazione di essere soli. Una solitudine non cercata, una solitudine non d’élite, come lo è di solito. No! Era una solitudine forzosa, forzata. Ed era la sensazione di essere guardati, di essere notati, come diversi. Ed era anche l’atteggiamento vigliacco di quelli che seguono il carro dei vincitori. […]

Io, con altre trenta ragazze, fui mandata, non si sa perché, a piedi al campo femminile di Birchenau, ad Auschwitz. Era una città: era una città del dolore, una città di 60.000 donne che entravano e uscivano tra quelle che andavano a morte e le nuove arrivate. Trentuno ragazze, italiane – non conoscevo nessuna di loro e solo la lingua ci univa in quel momento – entrai con loro e vidi quella serie infinita di baracche, la neve grigia, in fondo una ciminiera che sputava fuoco, intorno il triplo filo spinato elettrificato… E poi le sentinelle, e donne, donne scheletrite, testa rasata, vestite a righe, picchiate, in ginocchio, portavano pesi… «Ma dove siamo entrate?». Era una scena apocalittica. Noi, scese due ore prima da quel treno, ci guardavamo intorno, ma nessuno più ci avrebbe sussurrato: «Tesoro. Amore». «Ma dove siamo arrivate?». «Che cos’è questo posto incredibile?». «Siamo vittime di un incubo, di un’allucinazione… Non può essere che esista un posto di questo genere…».
Sì, esisteva, era stato costruito. Dov’erano i muratori, dov’erano i falegnami, dov’erano gli elettricisti, dov’erano gli industriali che avevano fornito i materiali?
Erano stati realizzati questi campi già da tempo, molto ben organizzati, molto ben preparati per far soffrire e morire: quello era il fine.
Entrammo nella prima baracca, dove ci fu tolto tutto! Fummo spogliate, nude. Come si può sentire una donna, improvvisamente nuda, dinanzi a soldati che passano, guardano sghignazzano con l’estremo disprezzo della razza padrona.
Uomini armati, vestiti di tutto punto e quelle ragazze nude che cercavano inutilmente di coprirsi con pudore: era quella la maggiore persecuzione. E poi sempre davanti ai soldati venimmo rapate a zero, ci vennero rasati il pube e le ascelle, e poi, con estremo sfregio e spregio, ci fu tatuato il numero sul braccio sinistro.
Lo porto con grande onore il mio numero, il 75190 di Auschwitz. In questo i nazisti sono riusciti perfettamente. Chi è tornato per raccontare, è rimasto essenzialmente il numero di Auschwitz. Volevano sostituire con un numero l’identità di milioni di uomini e donne e una volta morti, non sarebbero state più persone, ma numeri: il niente a raccontare di loro. E chi è tornato è rimasto essenzialmente quel numero. Io lo ripeto sempre ai miei figli: sulla mia tomba, se sarò una delle poche persone della mia famiglia ad avere una tomba, voglio che ci sia scritto prima di tutto il mio numero. Con una piccola operazione di chirurgia plastica potrei toglierlo, in qualunque momento. Ma credo che quel numero sia un monumento alla vergogna di chi l’ha impresso sulla pelle, e credo che sia anche un motivo di onore per chi, avendo perso tutto nella Shoah, non ha perso la sua mente, non ha perso la sua anima, non ha perso la memoria di quella serie interminabile di numeri.
In quel momento ero una disgraziata ragazzina di 13 anni a cui veniva portato via tutto, anche una fotografia, un libro, un fazzoletto, le restava il suo povero corpo, rasato, rapato, e col numero tatuato sul braccio sinistro. […]

Io avevo odiato, per tutto il tempo della mia prigionia, i miei persecutori, li avevo odiati con una forza enorme e in quel momento, quando vidi il comandante di quell’ultimo campo vicino a me spogliarsi e buttare divisa e rivoltella, ai miei piedi pensai: «Adesso, con grande fatica, vista la mia debolezza, mi chino, prendo la pistola e lo uccido».
Mi sembrava il giusto finale per quello che avevo visto e sofferto, per quello che avevo visto soffrire e morire intorno a me. Un attimo. Una tentazione fortissima. Ma, in quell’attimo stesso in cui ebbi la tentazione di uccidere, capii che io ero diversa dal mio assassino, che io non avrei mai potuto uccidere nessuno per nessun motivo. Se avevo scelto la vita, non potevo mettermi sullo stesso piano di chi aveva nutrito a tal punto di odio la cultura del proprio Paese da collocare nei luoghi del potere simboli di morte come le tibie incrociate e il teschio.
Io avevo scelto la vita quindi non avrei mai potuto uccidere nessuno. Non ho raccolto quella pistola e da quel momento non solo sono stata libera ma sono diventata donna di pace. Appartengo a una specie in via di estinzione: i sopravvissuti della Shoah, sono nata nel 1930, sono oggi una delle più giovani di quei 90 sopravvissuti che vivono in Italia che possono dire come me: «Io c’ero». Quando vado a parlare nelle scuole, nelle università, nei circoli, nelle parrocchie, ovunque mi invitino, vorrei prendere per mano quelli che mi ascoltano, visto che la mia testimonianza non è né un’elaborazione né uno studio teologico, critico, filosofico, storico, psicanalitico, ma una storia personale. Vorrei prendere per mano le persone e invitarle, mentre racconto, a non perdere nella vita nessun momento di amore verso coloro che ci vogliono bene… Sono momenti preziosi, che caricano per tutta la vita”.

Cit. da Memoranda. Strumenti per la giornata della memoria, a cura di D. Novara, edizioni la meridiana, Molfetta, 2003. Titolo originale: “Matricola 75190 di Auschwitz”

Immagine dal web_Liliana Segre

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