Mi sono alzata dal letto con in testa le tracce di un sogno bello e aprendo la finestra all’aria di Milano ho immaginato profumasse di legno.

Sono trascorsi diversi decenni da quando bazzicavo la falegnameria di famiglia e adesso mi ritrovo stupefatta a frugare nel cassetto della memoria che riguarda un’altra vita. Il colmo per una che fa la ghost writer di mestiere, scrive memoir e obbliga i suoi narratori a rimestare nel passato dove, quasi sempre, ci si sporca le mani e qualche volta ci si fa male. Invece questo sogno, il suo ricordo, è dolce e molto profumato.

C’era la fabbrica.
Operosa.
Con dentro gli operai e certe macchine che ora appartengono all’archeologia industriale.

In cortile le cataste di legname sfumate nei colori delle foreste di tutto il mondo: rovere francese, americano e di Slavonia, abete della Val di Fiemme, castagno toscano, il prezioso noce nazionale, douglas canadese, mogano africano, tanganika, l’iroko e il padouk e poi il ciliegio, perfino il teak Burma, l’oro della Birmania, un paese che se lo nomini nessuno sa che è il Myanmar di adesso. Lo sguardo accarezzava le sfumature di verde, grigio, rosa e marrone, e le tracce lasciate da qualche animale. Oppure la sorpresa di trovare infrattato nelle ferite del tronco ricomposto in tavole, magari un serpente. Era successo più volte. Migranti inconsapevoli sopravvivevano a un lungo viaggio fino al deposito di legname, poi venivano scoperti e, spaesati, terrorizzati loro di vedere noi tanto quanto era grande il nostro spavento, tentavano la fuga. C’era sempre un urlo nel momento del primo confronto, poi tutto si fermava. Il rumore delle bindelle s’allisciava nel girare a vuoto, come lo stridio delle seghe, lo schiocco delle toupié, il sincopato marciare delle calibratrici e tutta la sinfonia scemava in un sottofondo perché gli orchestrali, gli operai, mollavano gli strumenti per precipitarsi in cortile e dare la caccia al malcapitato ospite. Per ultimo compariva il direttore d’orchestra, il capofabbrica, l’unico che non corresse con entusiasmo alla mattanza.

Intanto dalle scale scendeva mio padre in pantaloni scuri e camicia bianca un po’ sbottonata, tra le dita sporche di grafite una sigaretta che lì, tra tutto quel legno, era una bestemmia. Lui sì che avrebbe voluto precipitarsi giù e cacciare con gli altri, ma non poteva. Era il padrone e stava al tempo del capofabbrica. Quelli in ufficio dovevano contentarsi di spiare. Io restavo dietro i vetri con la signora Anna, la segretaria; curiose e impaurite, ascoltavamo le urla d’incitamento e d’avviso e facevamo il tifo per il serpente anche se lo temevamo. Di solito la battuta durava poco, la sorte del serpente era segnata, istupidito com’era dal viaggio e dal cambio di clima.

E poi c’erano i topi. Quando la fabbrica si svuotava, verso l’imbrunire, si avventuravano da sotto le cataste verso l’aerea scoperta del cortile. Il loro struscio. Per gli uomini era una battaglia da condurre con costanza e neanche facile, la derattizzazione non era ancora una scienza esatta.

Una delle meraviglia della falegnameria, del deposito di legname, era nella storia che raccontavano i suoi odori e qui… Mi ricordo di un libro, ispeziono gli scaffali e ci metto parecchio nella marea di tomi che ho accumulato dappertutto. Eccolo, è un po’ squadernato, ci ho lasciato diverse orecchie, trovo in fretta quello che cerco, l’avevo sottolineato chissà quanti anni fa. Lo scrittore è Patrick Süskind, il titolo del libro, del 1985, è Profumo, un romanzo straordinario. Ovvio che io non abbia mai dimenticato anche il suo odore del legno. Annusate, vi farà sentire bene!

“Nel sole di marzo, mentre era seduto su una catasta di ceppi di faggio che scricchiolavano per il caldo, avvenne che egli pronunciasse per la prima volta la parola «legno». Aveva già visto il legno centinaia di volte, aveva sentito la parola centinaia di volte. La capiva anche, infatti d’inverno era stato mandato fuori spesso a prendere legna. Ma il legno come oggetto non gli era mai sembrato così interessante da darsi la pena di pronunciarne il nome. Ciò avvenne soltanto quel giorno di marzo, mentre era seduto sulla catasta. La catasta era ammucchiata a strati, come una panca, sul lato sud del capannone di Madame Gaillard, sotto un tetto sporgente. I ceppi più alti emanavano un odore dolce di bruciaticcio, dal fondo della catasta saliva un profumo di muschio, e dalla parete d’abete del capannone si diffondeva nel tepore un profumo di resina sbriciolata.
Grenouille era seduto sulla catasta con le gambe allungate, la schiena appoggiata contro la parete del capannone, aveva chiuso gli occhi e non si muoveva. Non vedeva nulla, non sentiva e non provava nulla. Si limitava soltanto ad annusare il profumo del legno che saliva attorno a lui e stagnava sotto il tetto come sotto una cappa. Bevve questo profumo, vi annegò dentro, se ne impregnò fino all’ultimo e al più interno dei pori, divenne legno lui stesso, giacque sulla catasta come un pupazzo di legno, come un Pinocchio, come morto, finché dopo lungo tempo, forse non prima di una mezz’ora, pronunciò a fatica la parola «legno». Come se si fosse riempito di legno fin sopra le orecchie, come se il legno gli arrivasse già fino al collo, come se avesse il ventre, la gola, il naso traboccanti di legno, così vomitò fuori la parola. E questa lo riportò in sé, lo salvò, poco prima che la presenza schiacciante del legno, con il suo profumo, potesse soffocarlo. Si alzò a fatica, scivolò giù dalla catasta, e si allontanò vacillando come su gambe di legno. Per giorni e giorni fu preso totalmente dall’intensa esperienza olfattiva, e quando il ricordo saliva in lui con troppa prepotenza, borbottava fra sé e sé «legno, legno», a mo’ di scongiuro”.

Immagine in apertura Photo by Clem Onojeghuo on Unsplash

 

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