È di questi giorni un articolo su Rockol.it che titola La terribile esperienza di scrivere l’autobiografia di Mick Jagger. A raccontare la vicenda è Barry Coleman, il ghostwriter che ha avuto l’incarico di scriverla dalla casa editrice Weidenfeld & Nicolson. In realtà Coleman è subentrato a un altro scrittore fantasma che aveva rinunciato al progetto avviato nel lontano 1983. Anche la collaborazione con il nuovo ghostwriter è fallita e tuttavia pare che Mick Jagger non l’abbia presa male. Coleman ha detto di avergli prospettato la possibilità di ripensare l’autobiografia in una chiave diversa: “Lui semplicemente non voleva più farlo. Io penso che abbia rispettato il suo pubblico non dandogli qualcosa di ordinario su una vita straordinaria. (…) In un certo senso, ti dice più su Mick di qualsiasi cosa che sarebbe potuta uscire in un libro mediocre. C’era bisogno che Mick parlasse con qualcuno come se fosse un terapeuta, si avvicinasse alla sua vita da una tangente. Invece siamo finiti con qualcosa che era troppo banale per Mick Jagger”.

Coleman ha scoperto l’acqua calda? Lo scrittore fantasma per scrivere la storia di un altro deve entrare nella pelle del suo narratore, diventare il suo confidente, ancora meglio lo specchio entro cui il narratore si riflette e svela le sue pieghe più segrete; questa è la premessa necessaria per realizzare un buon lavoro, altrimenti meglio lasciar perdere. L’alternativa è scrivere un racconto cronachistico, un elenco di eventi in cui i personaggi si muovono senza mostrarsi, un racconto “ordinario e banale”, come lo definisce Coleman. Un modus operandi che non mi appartiene.

Certo che avere avuto Mick Jagger come narratore non dev’essere stato facile, almeno per quello che si sa di lui, della leggenda che è. Forse Mick alla fine non se l’è sentita di lasciarsi andare a raccontare la sua verità, forse l’Uomo scatenato sul palco è tutt’altro da quel che ci ha lasciato vedere di sé. E se avesse avuto paura?

Finora nella mia carriera di ghostwriter mi è capitato un solo narratore che alla prova dei fatti non ha saputo narrare la sua storia. Dopo aver dato conto delle sue origini ricordando la famiglia, il suo percorso di bambino prima e di adolescente poi, si è ritirato come una tartaruga nel carapace. Sempre puntuale a ogni appuntamento, nel confronto lui non c’è più stato né mi ha fatto conoscere le persone importanti che hanno popolato la sua vita; ha evitato il ricordo delle emozioni del passato. L’ho sollecitato, doveva guardarsi dentro, trovarsi, ma lui è entrato in stallo e ha scelto di raccontarmi una serie infinita di fatti da cui restavano fuori i moti dell’anima.

Volersi raccontare e poi sfuggire alla prova di narrare se stessi pur sapendo che chi ascolta non è lì per giudicare, ma per capire e adattare la storia in una chiave letteraria, è un fenomeno da indagare. Insomma, dare corpo a un progetto di scrittura e poi sfuggirgli, sottrarsi al narrare, in apparenza ha poco senso e allo stesso tempo ha un senso assai profondo. La scelta di tacere il cuore del racconto pregiudica la completa riuscita del progetto, gli sottrae la dimensione emotiva, la tridimensionalità, le pieghe e le ombre, il mistero e l’espressione della creatività e ancora tanto altro. Cosa avremo? Un racconto scritto bene. Ci basta? Allo scrittore probabilmente no e per quanto riguarda il narratore avrà perso l’occasione di conoscersi meglio, di godersi il viaggio nella vita che si è lasciato alle spalle. Perché? Le possibili risposte sono tante, le sto mettendo in fila, ci sto ancora ragionando.

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Immagine dal web

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