Nei libri che scrivo spesso racconto le storie degli altri, storie vere che raccolgo dalle persone che le hanno vissute. Scrivere un libro che prende spunto dalla realtà è un atto creativo che si rinnova in modo diverso ogni volta, in relazione alla storia e al narratore che me la racconta.

Tra le tante variabili in campo, per esempio la memoria e il modo di narrare della persona con cui lavoro, il tipo di relazione che instaura con me che scrivo, pesa molto la distanza che il narratore ha dalle vicende che racconta; si tratta di un tipo di distanza diverso da quello che tengo io, che dovrò tradurre la storia in un romanzo, un’opera letteraria, dosando la giusta alchimia di realtà e invenzione e trasformando le persone in personaggi.

In questo forma di scrittura condivisa, per lo scrittore vale la regola di accogliere la narrazione orale attraverso un ascolto attivo che eviti qualsiasi intromissione, giudizio, pregiudizio rispetto a ciò che il narratore gli confida. Solo così potrà essere tanto lucido da analizzare la storia rimarcando “la giusta distanza” dai suoi contenuti.

Allo stesso tempo tra chi scrive e chi racconta dovrà nascere e crescere un rapporto basato sulla fiducia e sull’empatia; lo scrittore dovrà entrare nelle emozioni dell’altro, nelle sue paure, vivere le sue fragilità, diventare suo “complice” al punto da poter trasmettere alla pagina scritta il sentire del narratore, filtrato, come fosse il suo.

I due aspetti, la giusta distanza e il coinvolgimento, potrebbero apparire in contraddizione, ma così non è. L’empatia favorisce la confidenza con il narratore mentre lo sguardo “distante” dello scrittore dalla storia facilita un’analisi lucida e aiuta la resa letteraria. Il mio coinvolgimento durante la scrittura appartiene alla natura di questo lavoro, almeno per quanto mi riguarda, poiché scelgo le storie e i narratori secondo il mio “sentire” e d’altra parte lo sguardo deve restare appeso, in distaccato equilibrio al bordo della storia da tradurre in parole e pagine di libro perché condivido con altri il principio per cui “la scrittura ha bisogno di distanza”.

Diverso è il concetto di giusta distanza letto esclusivamente dal punto di vista del narratore.

Un giorno il sole si oscura solo per noi: un evento imprevisto ci stravolge la vita e magari, oltre la nostra, quella dei nostri cari. Accade qualcosa di enorme, di mai conosciuto prima e ci spiazza nella misura in cui ci sentiamo impotenti e non riusciamo a reagire, talvolta neppure a pensare.

Siamo costretti ad attraversare un’esperienza dolorosa che ci costringe a percorrere una strada impervia e sconosciuta di cui non conosciamo il punto d’arrivo. Siamo spaventati, terrorizzati di dover affrontare una prova che ci travolgerà e ci procurerà una ferita che non sappiamo se e quando potrà guarire. Nel mezzo della tempesta, perdiamo di continuo la rotta e non riusciamo a intravedere quella spiaggia quieta cui agogniamo. Viviamo il trauma, o lo abbiamo vissuto, ma non sappiamo in che modo superarlo.

A ognuno di noi è capitato di utilizzare, più o meno seriamente, la parola trauma. Quando il riferimento è coerente con un’esperienza traumatica, può capitare che ogni momento della nostra giornata trascorra sotto gli attacchi della paura, del dolore e della rabbia; magari non siamo in grado di gestire le immagini che ci perseguitano e temiamo di non essere capaci di riconquistare una serena normalità.

Il panico, l’ansia vissuta come una coperta di cui non riusciamo a liberarci, rischiano di compromettere il nostro equilibrio. Talvolta ci è impossibile mettere la giusta distanza tra noi e gli eventi che ci hanno sconvolto anche dopo mesi, perfino dopo anni.

Scopriamo che evitare i pensieri, i luoghi, le persone e le situazioni che ci riportano a ciò che abbiamo vissuto è inutile.

A questo punto scrivere dei modi e delle terapie di supporto al superamento di un trauma mi porterebbe a sconfinare in un campo che non rientra nelle mie competenze e del resto non sono attrezzata per farlo, tuttavia mi interessa ragionare su un aspetto della questione correlato con la mia attività di “scrittrice che scrive le storie degli altri” attraverso la realizzazione di romanzi che talvolta firmo e talvolta no, nel ruolo di ghostwriter.

Sono sempre più le persone che mi contattano allo scopo dichiarato di scrivere un libro sulla loro storia mentre in realtà cercano un aiuto esterno per uscire dallo stato di perenne emergenza in cui si trovano a vivere, cui non sanno porre rimedio.

Scrivere un libro che racconti la propria storia, sia pure romanzata, produce un cambiamento, può essere un valido strumento di aiuto a patto che il narratore, raccontando con onestà, riesca a rimettere i fatti e le emozioni del passato nel passato, appunto, prendendo la giusta distanza dalla storia.

Ha detto bene un narratore con cui ho lavorato qualche anno fa: “Rileggo il libro e ricordo senza più provare rabbia, o dolore e neppure rancore. Adesso il passato è davvero alle mie spalle, lo ricordo se e quando voglio”. Cosa abbiamo prodotto insieme, tenendo ciascuno la rispettiva giusta distanza? Insieme abbiamo fatto un viaggio tempestoso e appassionante, il mio narratore dice di sentirsi libero di costruire un nuovo futuro e io sono soddisfatta di avere scritto un buon libro.

Vale per tutti? Non so, e non lo credo. Ognuno di noi può reagire in modo diverso alla stessa medicina e, soprattutto, io sono una scrittrice e non un dottore.

Per più info naviga il sito. Se vai di fretta comincia da qui:

Scrivere di sé Vs scrivere un romanzo autobiografico-1°parte

Scrivere di sé Vs scrivere un romanzo autobiografico-2°parte

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Scrivere un libro in due: io, ghostwriter, ascolto al tua voce

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