Qui in città c’è un caldo che ammazza, mi appresto a morire e per ingannare l’attesa leggo.

Nel senso: tutti dobbiamo morire, è banale, più vai avanti meno tempo ti resta.
Ammesso che tu abbia vissuto in modo più o meno degno, ed è da vedere, vale la pena che ti prepari a morire.
Anzi, impara a morire poco per volta, o ad ascoltare la morte che arriva. Magari puoi fartela amica.

Intanto vivo, ci provo, e non è poco, e leggo, ma mi distraggo: là fuori c’è chi patisce la guerra, e muore sul serio, qui cade il governo, al chiuso con la mascherina, oppure no, il Covid non rende giustizia al Paese. Ah, il Paese, quel che ne rimane, il mondo mezzo scassato, la gente, poche Persone, per lo più zombi.

Chiudere gli occhi e ricordare, leggere il passato artefatto da un filtro rosa, estati cucinate a puntino al posto di questo forno impazzito, uno sputafuoco che nessuno si cura di provare a spegnere. Incendi, terra bruciata, animali carbonizzati, qualche umano qui e là.

Una volta era fresco in pineta, magari ti portavi il golfino di cotone.
Le panchine rosse e azzurre, scrostate, l’eco di discorsi innocui, o perfino intelligenti; ricordo la brezza che sfiorava le spalle, muoveva i capelli.

Fa fresco da te? No, non rispondermi, per carità, non voglio sapere altrimenti ci penso mentre sudo e sto peggio.

È il mio mestiere aprire la memoria, quella degli altri, però.

E comunque ho già fatto la maggior parte delle cose che qualcuno vicino a me per un po’ ricorderà, per altre esperienze memorabili dovrò sfruttare uno scampolo di pochi anni e non perché la fine sia vicina, magari diventerò centenaria, ma nel presente, e temo nel prossimo futuro, non avrò molta voglia di fare: grandi rivolgimenti all’indietro ci attendono.

Dopo le età della pietra e le età dei metalli, dopo l’età antica, il Medioevo, l’età moderna, nel tempo d’oggi stiamo attraversando l’età dell’imbecillità, grigia e fumigante di vapori nauseabondi, a visibilità limitata.

E non dirmi che mi sono svegliata male. Non dirlo, cazzo! Taci e se vuoi tappati le orecchie, ma resta lì, con indosso il tuo auricolare. Ascolta, anzi fingi di ascoltare, mi basta.
Questo Paese non è più casa mia, lo capisci? Ovunque mi giri vedo troppi scemi, in certi contesti sono la prevalenza: nelle piazze, in qualche gruppo di amici, o ex amici, tra i conoscenti, alle assemblee di condominio. Se proprio devo entrare in una conversazione resto in superficie, ascolto molto, fingo, annuisco e taccio. Ma non ce la faccio, boccheggio.
Del Vaffanculo che ho nel cuore si sono appropriati tempo fa certi straniti e per questo non oso proferire il Vaffa a gran voce, per timore di venire scambiata per merce avariata. Mai una gioia neanche nell’insulto.

Aspetta la fine dell’estate e vedrai, mi dicono i pochi amici, gli ultimi rimasti e che ancora sento. Sono incerta se rompere anche con loro, sono stanca, sono Nata libera come la famosa leonessa dei tempi miei e ora mi adatto alla forma dell’interno sgualcito di una pantofola invernale; ancora in buono stato giaccio per metà dell’anno chiusa in una scatola in attesa del freddo che chissà se tornerà.

Nell’attesa che mi capiti di morire, leggo. Leggo perché mi quieta. Le pagine dei libri, soprattutto se sono fondo avorio stampate in Garamont 13, o  meglio 14, mi rilassano. Se poi capisco quel che leggo, se è interessante, se la storia mi intriga e mi porta altrove, il gioco è fatto: evado. Ecco un intero paragrafo senza aggettivi e avverbi, un chiodo d’acciaio. La punteggiatura è perfetta, l’inchiostro però è di un tono troppo chiaro. Si sa la vista è affaticata dalle immagini improbabili aggiustate da Ps, la realtà non s’imprime sulla retina o arriva distorta. Dio, che angoscia! Cosa non riesco più a vedere? Per non dire del mal di schiena appena temperato da una gran cautela nei movimenti dell’alzarsi e del sedersi. Perché non sarò così prossima a morire come alcuni vorrebbero, lo so, però l’elasticità di cui godevo alcuni anni fa (pochi, invero), l’ho persa e ora qualsiasi azione di recupero è un’impresa.

Forse mi sono svegliata male per via degli acufeni e mi infastidisce percepire la rassegna stampa del mattino come un mormorio indistinto da rosario del funerale. Svegliarmi male è una costante da un po’ di tempo in qua, ma sorrido, non demordo, non gliela do vinta a questi tempi cupi, al progredire di uno sfacelo per cui ogni cosa, me compresa, non funziona più come una volta. Non mi consola sapere che i deficienti non vinceranno la partita perché intanto rischiano di aggiudicarsi almeno un tempo ed è già tanto, troppo, Sì, lo so, mi nutro di visioni orrende, ma questa è la realtà, basta saper guardare. Meglio leggere, allora, che altro posso fare?
Qui in città c’è un caldo che ammazza.

Luglio 2022, l’ultima telefonata
Settembre 2022 – Addio a S, cara amica, mi mancherà.

 

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