Quando Marco Bagliano e io abbiamo iniziato ad abbozzare il progetto di scrittura concluso nel romanzo “Qualcosa Nascosto”, non conoscevo ancora alcuni aspetti particolari del luogo in cui avremmo ambientato la narrazione. Non mi riferisco alla Casa funeraria della famiglia Ventura, ma ad Alessandria, la città in cui è collocata; sia nel centro che nei dintorni, come in diversi dei paesi spopolati che le fanno da corollario, è nota la presenza di presenze, scusate il gioco lessicale. Intendo riferirmi ai fantasmi&Co.

Qualcosa nascosto ghostwriterQualcosa nascosto” narra dell’incontro tra un impresario di pompe funebri e un ragazzino finito in un grosso guaio. Tutto avviene in un solo giorno, il primo di luglio del 2019, ad Alessandria; Pietro Ventura e la sua famiglia affrontano la consueta routine di “una giornata da becchini” in cui le vicende dei vivi incrociano quelle dei morti e di alcune presenze benevole, quando accade qualcosa di inaspettato. Io ho vissuto la scrittura di questo romanzo come un viaggio tra le anime in pena: l’ho trovato affascinante, ma non tutti hanno i miei gusti, in più ho avuto il vantaggio di avere al mio fianco Marco Bagliano che mi ha accompagnato su strade impervie facendomi sentire al sicuro. Come sempre, prima di iniziare a scrivere avevo fatto anche diverse ricerche, alcune mi erano servite per approfondire quanti tipi di fantasmi sia possibile incontrare. Senza entrare troppo nel dettaglio, sappiate che nel corso della vita potreste imbattervi in esempi di fantasmi domestici, quelli che restano per sempre legati alle case che hanno abitato o nei fantasmi ciclici che si manifestano ogni tanto in un luogo in cui in passato è accaduto loro qualcosa di speciale. Sono da ricordare anche i residui psichici, entità che si ripropongono sempre allo stesso identico modo, facendo gli stessi gesti, magari mostrandosi affacciati a una finestra. Non possiamo dimenticare i poltergeist, spiriti casinari cui piace spostare oggetti, rompere piatti, emettere suoni, che però pare abbiano origine dall’energia di una persona in carne e ossa. Ovviamente non tutti credono all’esistenza degli spettri, immagino che la resistenza di costoro sia dovuta all’incapacità di riconoscerli quando li incontrano, infatti bisogna essere dotati di una speciale sensibilità per far scattare la scintilla di un contatto. Io sono una scrittrice fantasma, nel corso della vita ho avuto qualche esperienza fuori dal normale e posso vantare una nonna sensitiva e medium; è evidente che un po’ di dimestichezza con le presenze ce l’ho e del resto, anche mentre scrivo questo post, Agostino e Camilla – i lettori di “Qualcosa nascosto” sanno di chi parlo – sono qui con me, mi sorridono facendo ampi cenni d’assenso sfumati in verde salvia, uno dei colori che trovo più rasserenanti in assoluto.

Con queste premesse per me è quasi un atto dovuto dare risalto ad Halloween lasciandovi con un racconto che vede protagonisti Pietro Ventura e Lucy, per l’occasione in libera uscita dalle pagine del romanzo di cui Marco Bagliano e io siamo coautori, un regalo speciale dedicato a coloro cui è piaciuto il nostro libro. Chi mi segue sa che scrivo sempre prendendo spunto dalla realtà che trasformo in romanzo. Chissà quanto di fiction e quanto di vero c’è in questo racconto!

Mica una di questo mondo

La mattina è illuminata da un sole che bagna d’oro il viale alberato. Lucy sgamba con gran gusto nei cumuli di foglie mentre strattona il guinzaglio per farmi accelerare il passo verso il parco.
«Svelta, entra!» Gianluca socchiude il cancello dell’area cani. «Oliver ti aspetta», poi si rivolge a me: «Pietro, hai visto l’ora? Hai tirato tardi per Halloween e non ti è suonata la sveglia?»
«Non sono di turno, oggi non vado alla Casa funeraria, faccio vacanza.»
«Anch’io sono in ferie, magari ci ritroviamo qui anche nel pomeriggio?» Raddrizza le spalle e mette in mostra la pancia, poi s’appoggia allo steccato. «Ce ne siamo prese tante di giornate di vacanza ai tempi della scuola. Ti ricordi?»
«Già, con il mio motorino avevamo iniziato a esplorare Alessandria e i dintorni. Ti ricordi quando andavamo a Genova? Un viaggio proibito, una trasgressione che poteva costarci cara. Dovevamo andare e tornare in una manciata di ore senza disporre di navigatori e di cellulari, e neppure di una mappa.»
«Mi ricordo la scritta che campeggiava sul tuo Aprilia: Dalla non è un cantante è un consiglio. Pietro, eri proprio scemo!»
«Avevamo quattordici anni! Quante volte ci siamo persi? E i passaggi sul Sassello, il Turchino e quando ci capitava di bucare e ci mettevamo un sacco a riparare la gomma.»
«E la nostra gelateria preferita a Genova? Ogni volta ci mettevamo due ore per trovarla.»
«Forse era un modo per aggiungere un brivido alla fuga: alle quattro del pomeriggio dovevamo essere a casa, farci vedere dai genitori altrimenti…»
«E l’ultima volta che ci siamo persi?» Gianluca storce la bocca mentre parla. A me viene in mente la sterrata che avevamo imboccato al ritorno da Genova nella speranza di arrivare prima ad Alessandria; dopo pochi chilometri si era trasformata in un sentiero di cui alla fine si estinse il tracciato.
«Saremmo dovuti tornare indietro, fare il percorso più lungo.» Non aggiungo altro, non serve.

Il rombo dell’Aprilia sporcava i rumori del bosco e in breve la cortina di alberi davanti a noi si infittì al punto da impedirci di proseguire.
«Basta, non possiamo più andare avanti.» Spensi il motore. «Dammi una mano.» Avremmo dovuto girare il motorino sollevandolo, lo spazio di manovra era minimo. Bastò un’occhiata e, senza parlarci, decidemmo che avremmo alzato l’asticella per provare magari un’emozione più forte. Feci scattare il cavalletto, poi iniziammo a costeggiare la cinta fino ad arrivare a un cancello carico di ruggine, chiuso con una catena. Oltre il pilastrino c’era un varco coperto dalla vegetazione: bastava a farci passare. Un attimo dopo eravamo dentro un cortile coperto da un’erba giallastra altissima; davanti a noi c’era una vecchia casa semidistrutta con una falda del tetto crollata, alcune porte sfondate, altre sprangate mentre le imposte, quando c’erano, penzolavano immobili nel vuoto, appese a cardini che la prossima tempesta di vento avrebbe schiantato. Solo una finestra conservava i vetri interi, opachi per lo sporco.
«Qui sono secoli che non mette piede nessuno.»
La distesa d’erba della corte mostrava solo le nostre tracce; continuammo a perlustrare fino a che il mio amico lanciò l’avviso. «Pietro, guarda su.» Gianluca, appena dietro di me, era colore del gesso. «Guarda in alto. C’è una donna.» Adesso l’unico infisso intatto incorniciava il profilo di una vecchia vestita di stracci; stava immobile, bloccata in una posa innaturale, ci fissava di traverso e chissà da quanto: era già da qualche minuto che curiosavamo nella corte.
«Chi è? Cosa fa?» bisbigliò Gianluca mentre arretrava piano, a piccoli passi. «Chi può abitare un posto così?»
Alzai di nuovo gli occhi e rabbrividii. Ebbi la sensazione che la donna non respirasse.
«Scusi, signora, cercavamo un po’ d’acqua.» Quasi non mi usciva la voce. «Abbiamo visto la casa e allora…» Ormai ero fradicio di sudore, lo stomaco chiuso e anch’io iniziai a camminare all’indietro senza rendermene conto, lo sguardo fisso sulla stracciona i cui occhi non mi lasciavano andare. Finalmente si mosse, fece cenno di no con la testa per tre volte. A quel punto ci girammo e scappammo a gambe levate.

«Non ho mai dimenticato quella vecchia.» Gianluca si massaggia gli avambracci, sussulta.
«È stata la nostra ultima esplorazione.»
«Sono passati più di vent’anni e ancora non so spiegarmi cosa ho visto.»
«Nessuno poteva vivere lì dentro.»
«E comunque, Pietro, ora tu te ne intendi di morti, presenze e fantasmi. Magari ti sei fatto un’idea.» Lui ridacchia, ma io non raccolgo lo scherzo, richiamo Lucy, aggancio il moschettone del guinzaglio al collare. Lei mi segue docile, ha fame e sa che a casa l’aspetta una ciotola piena di crocchette.
Gianluca recupera Oliver e senza guardarmi riattacca: «La rivedo anche adesso, precisa com’era: la faccia rugosa, gli stracci sbiaditi intorno al collo, l’espressione lucida e lo sguardo fisso. Non una smorfia. Era inverosimile che fosse lì, dove per arrivare dovevi disboscare, aprirti un varco. Non c’erano strade attorno, era un rudere abbandonato chissà da quanto».
«Era un fantasma. Allora ce lo siamo anche detto, poi abbiamo seppellito la questione, faceva troppa paura. Adesso siamo adulti, Gianluca. Se lasci il piano del razionale, pensare che fosse un fantasma è la cosa più bella. Magari era morta in quel posto, chissà quando e in quali circostanze, e non se n’era mai andata. Ecco il motivo per cui la casa fu abbandonata.» Al primo incrocio ci salutiamo e prendiamo strade opposte.
«Sai, Lucy, ho la testa piena di pensieri da Halloween, un regalo di Gianluca» borbotto sottovoce mentre le allungo un grattino tra le orecchie e ripenso alla vecchia dietro il vetro rigato dalla polvere; resterà per sempre un mistero. Magari a distanza di oltre vent’anni dal nostro incontro, lei è ancora là, in qualche strana forma. Dopo averla vista, Gianluca e io non avevamo più trovato il coraggio di ritornare in quel luogo e, a dirla tutta, da quella volta avevamo smesso di esplorare le case abbandonate. E lei non si è mai fatta dimenticare; ogni tanto, nei momenti più impensati e senza un motivo capita che mi torni in testa in un modo confuso, non proprio come un ricordo, ma come la sensazione che lo accompagna. È una percezione che mi lascia sbalordito, così come accade ogni volta che incontro un defunto nelle prime ore dopo il decesso e  mi pare di sentire circolare qualcosa intorno al corpo, la coscienza di un’energia.
Insegnano tante cose, i morti, poi ciascuno di noi interpreta ciò che apprende a modo proprio. Forse l’energia che possediamo non abbandona subito il corpo. Un distacco immediato è qualcosa di violento mentre l’intuizione di una forza vitale che svigorisce lentamente per poi scivolare via, altrove, risultato di una scissione lenta, favorisce l’idea di un passaggio graduale. E così mi piace credere: l’energia vitale non evade subito dal corpo che ha abitato ma sguscia via dolcemente, si allontana per la sua strada prendendosi un intervallo per il commiato dalla forma materiale. Forse la misura del suo tempo, a noi sconosciuta, in qualche modo serve anche a dare forza a chi resta nel momento dell’estremo saluto. Quando il corpo si ferma con l’ultimo battito, è in quel momento, e solo allora, che l’energia inizia ad allontanarsi in una sospensione che può sfumare, ora più veloce ora più lenta.

Lucy e io siamo arrivati sotto casa quando il rumore di uno schianto e delle urla mi distraggono dal mio rimuginare. Mi blocco mentre la cana vorrebbe imboccare il portone. Aspetto con il guinzaglio teso, poi un ragazzo sullo skateboard viene avanti dal luogo dell’incidente e mi sfila di fianco mentre per contro corre un’ambulanza con la sirena accesa.
«Scusa, sai cosa è successo?»
Lui frena, un piede a terra mentre l’altro dondola la tavola. «Hanno investito una vecchia. Quello della macchina dice che lei gli è andata sotto. Bello il tuo cane. Anche mio nonno ha un pastore tedesco, ma abita a Roma, lo vedo poco.»
«Tu hai visto l’incidente? La donna è ferita oppure…» Il ragazzo ha intortato Lucy in una danza giocosa cui lei si presta volentieri. Ci sa fare con i cani.
«Allora? Non mi hai risposto. Come ti chiami?»
«L’ho vista di sfuggita, sembrava una barbona.» Dà la spinta per ripartire. «Pareva avesse cent’anni, mica una di questo mondo!» e mentre scivola via grida: «Lorenzo, mi chiamo Lorenzo».

 

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© 2022 – Susanna De Ciechi_iltuoghostwriter.it

Immagine d’apertura: La “Vecchia”_Giorgione_olio su tela, 1506

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