Ecco un’altra delle storie sparse del ghostwriter.  Le fantasie dello scrittore fantasma sono piene di scampoli di realtà, di racconti filtrati dal tempo e magari mescolati con l’attualità di vicende ancora incompiute, in continuo divenire.

La Madonnina delle anime perdute

Aveva preferito lasciare la macchina a casa ed era partito in treno che era ancora buio. La sera prima aveva riempito la valigia con meno roba di quanto gli sarebbe stato utile avere per un soggiorno di un mese; un modo per illudersi che magari sarebbe tornato prima del previsto. Aveva con sé anche il tablet, oltre il telefonino, nonostante conoscesse le regole della casa in cui era atteso, le stesse degli altri posti dove era già stato.

Il treno, un regionale, era sporco e lento, il viaggio interrotto da troppe fermate. Lui stava male: la testa invasa da pensieri nebbiosi che lo confondevano, dall’intontimento procurato dal ritmo del convoglio, dal sopore che lo assaliva a tratti e vinceva la lotta con la coscienza che lo aveva tenuto sospeso su un filo tutta la notte. Ogni tanto si assopiva per pochi minuti in cui prendevano forma e si sfrantumavano sogni paurosi e deformi: lui appiattito e inglobato in una parete, il suo corpo a fare da tappezzeria; lui schiacciato dentro il marmo della tomba di sua madre; lui stritolato nella mano enorme del suo pusher. Faceva freddo nel vagone, eppure sudava.

C’erano volute quasi tre ore per arrivare a destinazione. Fuori dalla stazione il cielo spargeva un chiarore malato, torbido, chiazzato di ombre e nuvole gonfie. Oltre il confine della piazza si intravedeva un perimetro di nebbia sfilacciata che definiva la periferia composta di strade senza significato. Si era messo a girare a vuoto nelle vie di quel paese che non conosceva, il suo sguardo andava all’asfalto gelato e viscido, agli alberi ghiacciati, al deserto di anime. Quando già si illudeva di avere sbagliato posto aveva incontrato il cartello che indicava l’istituto; era giallo con la scritta nera. Non voleva arrivare a destinazione, ma non si sarebbe sottratto al suo destino; poteva solo rimandare. Si era perso. «Mi scusi» aveva chiesto a un uomo con la tuta e una borsa da lavoro. «Sto cercando l’istituto.»
Il tizio gli aveva piantato gli occhi in faccia con aria malevola, poi aveva risposto apostrofandolo con il tu. Eppure lui aveva già passato da un pezzo i cinquanta, non era uno sbarbato.
«Vai diritto fino al ponte, là gira a destra e prendi la strada che sale. Comunque è indicato e  quando svolti lo vedi. Il castello è in cima.» Se n’era andato senza rispondere al suo saluto.
Lui aveva ripreso a camminare strascicando i piedi; aveva il magone, il battito accelerato, sentiva salire la paura che conosceva così bene. Intanto aveva cominciato a venire giù una pioggerellina schifosa, sporca. Voleva girarsi e scappare lontano da lì, invece aveva aumentato la velocità per poi andare quasi di corsa tirandosi dietro il trolley che sbandava. Si sentiva vecchio e stanco, troppo in là nella vita per essere ancora un tossico costretto a farsi, nonostante il disgusto che sentiva per sé e per quella roba schifosa che lo possedeva da più di trent’anni.

Ormai era quasi al termine della salita.

Attraverso le sbarre del cancello occhieggiava il grande edificio giallo striato d’acqua con le finestre protette da inferriate. Tutto intorno c’era un grande parco, bello anche nell’abito invernale, con alberi ben curati e cespugli e aiuole e un grande prato tagliato da vialetti ghiaiosi. Gli avevano detto che il giardinaggio era una delle attività che avrebbe potuto fare, ma certo non in questa stagione e poi a lui non interessava. Sulla destra il muro era interrotto da uno sbrego: conteneva una piccola cappella votiva con una Madonnina smunta dietro un vaso con dentro qualche fiore di plastica e di fianco un lumino rosso. Era il posto ideale per l’ultima tirata e lui aveva cominciato ad armeggiare con la stagnola e quella merda che lo teneva in bilico ed era la sua storia. Prima di farsi l’ultima dose di eroina aveva pensato a quante volte si era trovato nella stessa situazione. Aveva chiuso gli occhi sull’azzurro del velo e si era lasciato andare. Di lì a qualche minuto aveva recuperato il trolley ed era tornato sulla strada, ormai al confine della recinzione.

Una tenda aveva tremolato sulla facciata gialla. Dall’interno dell’istituto qualcuno lo stava osservando e di certo non aveva creduto che la sua sosta fosse stata di preghiera. A qual punto non restava che premere il campanello a dare inizio all’ennesima tortura. C’era stato lo scatto della serratura e nello stesso momento un uomo, un medico, era uscito dalla porta principale. Gli veniva incontro reggendo un ombrello e con in faccia un sorriso: « Benvenuto! Ti spiace chiudere bene il cancello, per favore?»

Lui aveva sbattuto forte il ferro alle sue spalle.

 

Proprietà letteraria riservata – vietata la riproduzione senza l’espresso consenso dell’autore.
© 2018 – Susanna De Ciechi.

Immagine dal web.

 

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