È settembre, si ricomincia e io mi sento carica di energia. Mi aspetta una nuovo inizio, scrivere un libro, un altro, e ciò mi mette di buonumore. Nel frattempo devo sbrigare la posta arretrata e questa è un’altra storia.  A volte, leggere anche poche pagine di alcuni dei testi che ricevo in visione mi lascia in uno stato di scoramento. Molti sono inaccessibili per forma e contenuto: caratteri per una vista da falco, righe fitte e margini inesistenti come nel manoscritto originale di Terra Matta, ma nessuno di questi autori è Vincenzo Rabito. Loro non stanno inconsapevolmente inventando un linguaggio, si limitano a massacrare la nostra lingua; riguardo il contenuto, spesso è incomprensibile e devo cercare di intuirne il significato. Agli aspiranti scrittori più disperati suggerisco di lasciare il loro sogno nel cassetto e mi azzardo a lavorare solo con quelli che, a mio avviso, hanno qualche freccia al loro arco.

Tuttavia è corretto ammettere che coloro che mi contattano mostrano di avere sufficiente buon senso da richiedere un parere sul progetto di scrittura che hanno a cuore. È un riconoscimento implicito al ruolo dell’editor che, lo ricordo, è assai diverso da quello del ghost writer. Non è cosa scontata.

Più di trent’anni fa Grazia Cherchi, intellettuale e storica editor nel mondo editoriale italiano della sua epoca, in un articolo su Panorama sottolineava la tendenza a fare sempre meno ricorso all’editing. L’attualità del pezzo che segue, Editing, chi era costui che, ricordiamolo, è del 1987, è stupefacente.

ghost writer scrivere un libro“È stato ripetutamente detto che compaiono sempre di più sul mercato “non libri” per “non lettori”, così come si è anche ripetutamente discettato sul fatto che a lettori distratti corrispondono oggi autori distratti. Recentemente Valerio Riva (Il Corriere della Sera, 28 giugno) ha osservato che nella nostra editoria non si pratica quasi più l’editing. Non se lo possono permettere i piccoli editori, mentre quelli più grandi sono sempre più riottosi a commissionarlo. Una volta c’erano almeno redattori o consulenti che leggevano in dattiloscritto i romanzi e quindi li commentavano con gli autori, dando loro suggerimenti; oggi, presa la decisione di pubblicarlo, il testo passa subito in tipografia. Fuori uno.
Personalmente, fare l’editing è il lavoro che preferisco in campo editoriale. Al punto che qualche anno fa mi capitò di chiedere consiglio al grande Erich Linder: cosa sarebbe successo se mi fossi dedicata solo all’editing? “Non avrebbe di che campare” mi rispose Linder, ricordandomi che da noi, a diffrenza che nei paesi anglosassoni, l’editing non è una prassi, ma un’eccezione. In pochi anni la situazione è sensibilmente peggiorata, dato il progressivo disamoramento per i libri da parte di chi li fa e il sempre minr numero di persone che vi si dedica con diligenza e passione. Diligenza e passione infatti sono oggi mal riposte: i vertici editoriali le considerano fissazioni maniacali che rallentano “i tempi di lavorazione”.
Così, se già erano pochi in passato, oggi sono pochissimi quelli che fanno editing (e così i lettori di dattiloscritti: so di una nostra casa editrice che ha assoldato allo scopo un gruppo di pensionati che leggono gratis, tanto per ammazzare il tempo; e speriamo si limitino ad ammazzare solo quello…). L’editing è un lavoro che richiede una forte dose di masochismo. Bisogna infatti tuffarsi nell’altrui personalità (anche stilistica) abdicando alla propria; in secondo luogo, a differenza che nei già citati paesi anglosassoni, è un lavoro che resta rigorosamente anonimo, di cui si è ringraziati solo verbalmente (gli americani invece trovano naturale ringraziare, e non in nota, chi li ha aiutati nella stesura, a strutturare, tagliare, ricucire, sfrondare i loro parti, e lo dichiarano esplicitamente).
Questi collaboratori dello scrittore non sono ghost writer (categoria che meriterebbe un discorso, spassosissimo, a parte) né coautori, ma sono dei lettori competenti e fidati al servizio di chi scrive e non degli editori (anche se sono questi ultimi a sborsare di malavoglia il modesto pecunio per il lavoro prestato). I nostri autori generalmente sottopongono (quando li sottopongono) i loro scritti a lettori prezzolati (soprattutto in senso morale: pronti solo alla lode per pigrizia, per convenienza e per tante altre cattive ragioni), e sono poco disponibili a farsi esaminare da uno sconosciuto: in prima battuta, reagiscono malamente. Poi però, e introduco qui una nota positiva, nel vedere affrontato punto per punto con attenzione il loro lavoro, in genere gradiscono e spesso utilizzano i suggerimenti. Sono loro, ovviamente, ad avere l’ultima parola: chi fa l’editing propone (e quante volte mi è capitato di ritirare richieste di modifiche, convinta dall’autore della giustezza della sua versione!), a decidere è chi ha scritto.
A mio avviso, comunque, nella narrativa nostrana sono pochi, pochissimi gli autori che non hanno bisogno di editing, cioè, ripeto, di una lettura dettagliata, disinteressata e irta di suggerimenti e modifiche. Quanto a me, i miei editati lamentano soprattutto che io sovrabbondi in tagli, e dichiarano che potrebbero dare alle stampe un altro libro fatto solo di detti tagli.
E Stefano Benni, che per amicizia mi fa leggere in anteprima quello che pubblica, mi ha dedicato una poesia (e mi si scusi la citazione un po’ narcisistica): “Grazia ha telefonato: / Finalmente mi hai mandato / un vero romanzo / asciutto e stringato. / Grazia, da mesi di dirtelo tento, / era la lettera d’accompagnamento”.

Testo tratto da Editing, chi era costui_Panorama_luglio 1987 – inserito nel volume Scompartimento per lettori e taciturni. Articoli, ritratti, interviste, edito da Feltrinelli.

Vedi anche Grazia Cherchi_Visto non si stampi_dic.85

Immagine dal web: Grazia Cherchi

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