Mi ricordo di un post che avevo scritto lo scorso agosto, parlava di un ponte, quello di Genova, e di una nave, la Diciotti, e terminava così: “Mi ricordo, vi ricordo che è arrivato il momento di cominciare a gridare e di ribellarci all’imbecillità”.

È trascorso un anno da allora, è andata sempre peggio: il ponte è spezzato e ci sono più navi in mare cariche di migranti cui noi neghiamo l’attracco. Come italiani abbiamo perso consistenti pezzi di libertà, di credibilità e anche di dignità. Oggi siamo quelli che chiudono i porti, abbandonano donne e bambini in difficoltà, schifano i diversi a qualsiasi titolo, non sanno più pensare, delegano “le idee” ai bulli di turno e c’è perfino chi si diverte a esercitare qualche forma di violenza contro i più deboli, e talvolta non solo a parole.

Tutto ciò, e molto altro, è il risultato del “cambiamento” tanto atteso: con una giravolta incredibile, in poco più di un anno un gruppo malassortito di soggetti del tutto impreparati a sostenere il ruolo di guida di un Paese com’era il nostro ha messo in discussione cose come il valore della competenza, l’utilità della scienza (vedi la questione dei vaccini, per dirne una), il ruolo dell’Unione Europea, l’importanza dello studio e anche l’onestà di cui si diceva il portabandiera. Arrivati alla resa dei conti, che non possono tornare, da un lato c’è chi chiede pieni poteri e dall’altro gli ex compagni d’avventura che tempo fa avevano già deciso che la democrazia rappresentiva fosse cosa vecchia. Tutti hanno in comune l’obiettivo di comandare, l’unico che conta, mentre cosa comporti il governare a loro non interessa.

A pagare il conto siamo sempre e solo noi, almeno quelli di noi che restano perché non possono andarsene, o perché hanno deciso di provare a resistere. Un conto lo pagano comunque anche i giovani, quelli che valgono e se ne vanno appena possono, e sono tantissimi, mentre noi chiudiamo le porte ai migranti che arrivano perché “non ci piacciono” e non importa se sono in difficoltà in mezzo al mare, tanto noi non li salveremo. Lo dice il decreto sicurezza bis, diventato Legge, quindi è giusto così, come è giusto, sempre per chi è al potere, che nello stesso decreto venga di fatto “spinta una criminalizzazione del dissenso che non è giustificabile con la necessità di garantire manifestazioni pacifiche”.

Abbiamo avuto la fortuna di nascere nella parte del mondo che nuota nell’abbondanza, ma non è certo che potremo continuare a vivere senza provare cos’è la fame, senza essere costretti ad andare a bussare ad altre porte, per cercare un modo di salvarci. Se qualcuno ci aprirà è da vedere.

Eppure parlando con la gente mi accorgo che la maggior parte delle persone non crede che rischiamo una deriva in cui potrebbe non esserci più spazio per la democrazia.

La sera guardo la televisione. I fatti si accavallano in modo concitato. Passano le immagini dei politicanti nostrani di tutti i colori; le solite facce usurate che dicono quel che loro conviene per mantenere e magari rafforzare il potere sfruttando la crisi. Seguono le riprese delle navi incatenate in alto mare, ora i migranti sono schiavi che nessuno vuole, e poi parte il servizio sulle proteste antigovernative in Russia e a Hong Kong; la polizia trascina un po’ di gente sulle camionette mentre intimidisce gli altri, li malmena esortandoli a sgomberare. E c’è anche un servizio sulla nostra polizia che tiene a bada chi alza la voce al comizio di quello che brandisce il Rosario come un talismano.

Nessuno ci salverà, dobbiamo provare a farlo da soli anche se il diritto di protestare ce lo hanno già tolto, per decreto. La maggior parte della gente però non lo ha capito. Costruiamo nuovi ponti, abbattiamo i muri, apriamoci al confronto e ricominciamo a parlarci in modo civile, tutti quanti con un po’ di umiltà, mettendo da parte i pregiudizi. C’è ancora spazio per trovare una strada comune, per condividere invece che dividere? Io credo di sì.

Immagine dal web: Il mare di ghiaccio, conosciuto anche come Il naufragio della speranza, è un dipinto di Caspar David Friedrich la cui composizione si situa tra il 1823 ed il 1824. Attualmente è custodito presso la Kunsthalle di Amburgo.

 

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