Una delle prime cose che faccio quando sto per valutare le possibilità di avviare una collaborazione con un nuovo narratore che mi propone di scrivere un libro, è una ricerca su Internet; spesso inizio a leggere di lui, o lei, attraverso i Social. I selfie, se ci sono, mi danno parecchie informazioni riguardo la persona con cui avrò a che fare.

Possiamo far risalire la nascita del selfie al 1839 quando Robert Cornelius, un pioniere della fotografia statunitense, realizzò il primo autoritratto fotografico ritraendo se stesso; con questo scatto (chiamato dagherrotipo) nacque il primo ritratto di una persona. In seguito, grazie all’utilizzo di macchine fotografiche sempre più evolute, uomini e donne sposarono la novità dell’autoscatto soprattutto fotografandosi davanti a uno specchio fino al 2010, quando nacque l’iPhone4 dotato di una fotocamera frontale in grado di produrre autoscatti e videochiamate. Il resto della storia lo conosciamo tutti: chi non ha mai postato un selfie su un Social? La moda, all’inizio un gioco, è diventata una mania per trasformarsi in alcuni casi in patologia, o anche in business, perché no!

I social sono uno strumento e come li usiamo è affare nostro, di ciascuno di noi. Facebook, Instagram, Linkedin e compagni assecondano la nostra personalità, il nostro istrionismo, o la nostra cultura, le nostre passioni e, come è inevitabile, lo fanno scoprendo in parte la nostra identità. Attraverso l’uso dei selfie che ciascuno di noi sceglie di fare, o non fare, forniamo agli altri, quelli che ci guardano, uno strumento di lettura rispetto a ciò che siamo e a come vogliamo apparire. Va da sé che, proprio grazie ai selfie, ora un narcisista ha molte più opportunità di mettersi in mostra di un tempo. La condivisione del selfie diventa un processo creativo di sé, quasi un tentativo maldestro di imitare Mary Shelley nella costruzione di un simil Frankenstein, grazie ai filtri e alle tante App che permettono di modificare, migliorandola o distorcendola fino a negarla, la propria immagine.

Oggi, al contrario di un tempo in cui dovevamo stare alle regole imposte dalla famiglia, dalla tradizione, dalle consuetudini sociali e anche dalla buona educazione (ve la ricordate?), godiamo di una maggiore libertà e tuttavia mi pare che ciò si traduca in una maggiore difficoltà nel dare un senso a se stessi, alla propria vita; la continua riproposizione della propria immagine talvolta esplode in una frammentazione di sé che idealmente mi piace fermare in uno scatto in cui i nostri corpi ridotti a una miriade di coriandoli restano sospesi nello spazio, a fluttuare.

Il selfie esasperato, l’esigenza di vivere attraverso lo sguardo degli altri, toglie a taluni la soggettività, il carattere; ciò che nasce come un innocuo divertimento può portare, se spinto all’estremo, alla difficoltà di dare un senso a ciò che si è veramente. Tanta libertà di sperimentare i modi dell’apparire può produrre una paralisi: diventiamo manichini, algidi, immobili, senza espressione, cui cambiamo abito di continuo. Il contenuto che cerchiamo di dare ai nostri selfie è spesso vuoto e non è detto che si possa riempire in modo fedele scrivendo pagina dopo pagina un libro. Quella che ne uscirà potrebbe essere tutta un’altra storia.

Immagine dal web_ Andy Warhol

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